IV. Quanto sia misconosciuta questa vita interiore
San Gregorio Magno, che fu tanto esperto amministratore
ed apostolo zelante quanto grande contemplativo, con questa semplice
espressione: «Secum vivebat» – egli viveva presso di sé – caratterizza lo stato
d’animo di san Benedetto mentre gettava a Subiaco le basi della sua Regola,
divenuta ben presto una fra le più potenti leve d’apostolato di cui Dio si è
servito sulla terra.
Della maggior parte dei contemporanei bisogna
dire il contrario. Vivere presso di sé, in se stesso, voler governare se stesso,
non lasciarsi governare dalle cose esteriori, ridurre l’immaginazione, la
sensibilità, perfino l’intelligenza e la memoria al ruolo di servi della
volontà e conformare costantemente questa volontà a quella di Dio, è un
programma che si accetta sempre meno, in questo secolo di agitazioni che ha
visto nascere un nuovo ideale: l’amore dell’azione per l’azione.
Per eludere questa disciplina delle facoltà,
tutti i pretesti sono buoni: affari, sollecitudine per la famiglia, igiene,
buon nome, amor patrio, prestigio della categoria, pretesa gloria di Dio, fanno
a gara per impedirci di vivere in noi stessi. Questa specie di delirio della
vita esteriore giunge anche ad esercitare su noi una irresistibile attrattiva.
Come stupirsi, allora, se la vita interiore è
misconosciuta?
Ma dire misconosciuta è troppo poco; essa viene
spesso disprezzata e ridicolizzata proprio da coloro che più di tutti
dovrebbero apprezzarne i vantaggi e la necessità. Per protestare contro le
pericolose conseguenze d’un’ammirazione esclusiva per le opere, fu necessaria
la citata memorabile lettera inviata da Leone XIII al Card. Gibbons,
arcivescovo di Baltimora.
Per evitare il lavoro della vita interiore,
l’uomo di chiesa giunge al punto di misconoscere l’eccellenza della vita con
Cristo, in Cristo, per mezzo di Cristo, dimenticando che, nel piano della
Redenzione, tutto si fonda sulla vita eucaristica, tanto quanto poggia sulla
rocca di Pietro. Relegare in second’ordine ciò che è essenziale, è appunto
quanto inconsciamente compiono i partigiani di quella spiritualità moderna
chiamata Americanismo.
Costoro non giungono a considerare le chiese
come templi protestanti, per loro il tabernacolo non è ancor vuoto, ma la vita
eucaristica non sarebbe più sufficiente né adatta alle esigenze della civiltà
moderna; la vita interiore, che deriva necessariamente dalla vita eucaristica,
avrebbe ormai fatto il suo tempo.
Per le persone imbevute di tali teorie – e sono
una legione – la Comunione ha perduto quel vero senso che aveva per i primi
cristiani. Credono ancora nell’Eucaristia, ma non ci vedono più un elemento di
vita così necessario tanto per loro che per le loro opere. Non c’è perciò da
stupirsi se, non esistendo più per essi l’incontro intimo con Gesù-Ostia, la
vita interiore sia considerata come un ricordo del medioevo.
In verità, a sentir parlare questi uomini
d’azione delle loro opere, ci sarebbe quasi da credere che l’Onnipotente, il
quale creò il mondo come per gioco e dinanzi al quale l’universo non è che
polvere e nulla, non possa fare a meno del loro collaborazione! Molti cristiani
ed anche alcuni sacerdoti e religiosi, attraverso il culto dell’azione,
giungono inavvertitamente a formarsene una specie di dogma che ispira la loro
condotta e le loro azioni e li spinge ad abbandonarsi sfrenatamente ad una vita
esteriore.
Si vorrebbe poter dire: «la Chiesa, la diocesi,
la parrocchia, la congregazione, le opere di apostolato hanno bisogno di me...
Io sono più che utile a Dio». Anche se non si arriva ad esprimere apertamente
simile vanità, ci sono però nascosti nel fondo del cuore la presunzione che ne
è la base e l’attenuazione di fede che l’ha generata.
Sovente si ordina al nevrastenico di astenersi,
magari per molto tempo, da ogni occupazione; ma questo è per lui un rimedio
insopportabile, appunto perché la sua malattia lo mette in un’agitazione
febbrile che diventa come una seconda natura e lo spinge a cercare
instancabilmente nuovi dispendi di forze e nuove emozioni che aggravano il suo
male.
Altrettanto avviene spesso all’uomo di azione
riguardo alla vita interiore. Egli la disprezza, anzi ne sente maggior
ripugnanza appunto perché solo nella sua pratica si trova il remedio del suo
stato morboso; anzi, cercando di stordirsi sempre più con una valanga di lavori
crescenti e disordinati, egli scarta ogni possibilità di guarigione.
La nave corre a tutto vapore; ma se il pilota si
compiace della velocità, Dio invece giudica che quella nave, priva di un saggio
timoniere, sta andando all’avventura e rischia di rovinarsi. «Adoratori in
spirito e verità»: ecco ciò che Nostro Signore innanzitutto reclama.
L’Americanismo invece pretende di dare maggior gloria a Dio puntando
principalmente ai risultati esteriori.
Questo stato d’animo dimostra che, se oggi sono
ancora apprezzate le scuole, i dispensari, le missioni e gli ospedali, è sempre
meno compresa l’abnegazione nella sua forma intima, cioè nella penitenza e
nella preghiera. Colui che non sa più credere al valore dell’immolazione
nascosta, non si accontenterà di trattare da vili e visionari quelli che la
praticano nella solitudine del chiostro, – i quali invece non dimostrano minor
ardore per la salvezza delle anime che i più infaticabili missionari – ma
giungerà a ridicolizzare anche quegli apostoli che ritengono indispensabile
sottrarre qualche momento alle occupazioni, anche a quelle più utili, per
andare a purificare e riaccendere il loro zelo davanti al Tabernacolo e così
ottenere dall’Ospite divino i migliori risultati alle loro fatiche.
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