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Mauritz Adahl, terza classe, 30 anni.
Nessuno l’aveva mai amato come lo zio. I genitori
erano sempre nei campi, e la sera arrivavano stremati nella casa buia senza
voglia di nulla se non dormire. Nonni, Mauritz non ne aveva più. La gran parte del
tempo la passava da solo, si annoiava e si intristiva e non sapeva che fare.
Soltanto lo zio lo faceva felice: veniva spesso a trovarlo e gli raccontava
ogni volta una nuova, fantastica storia piena di pirati e di tesori e di
cavalieri e di castelli. Erano storie che non finivano mai, e se finivano era
perché i genitori di Mauritz erano rientrati e bisognava andare a cena e anche
lo zio doveva tornarsene a casa – però poi la storia ricominciava, il giorno
dopo o la settimana dopo, e i personaggi si confondevano, la principessa rapita
diventava una strega e il drago fiammeggiante un cane da caccia, e anche i
luoghi e i paesaggi e le città si scambiavano di posto, in una specie di
girotondo senza tregua che lasciava il piccolo Mauritz ogni volta a bocca aperta.
Mauritz era felice. Un giorno però lo zio partì per l’America, e la storia
senza fine finì. Mauritz aveva dodici anni. Allo zio di tanto in tanto scriveva
una lettera, e lo zio rispondeva raccontando il suo nuovo mondo: non c’erano
principi né orchi, però, e Mauritz rimpiangeva le favole di un tempo. I
genitori, poi, erano sempre nei campi. Gli anni passavano, e tempo e voglia per
le fiabe non ce n’era più: Mauritz, però, continuava a pensare allo zio
lontano, e ne rimpiangeva il sorriso benevolo, e lo zio gli mancava davvero. A
trent’anni suonati decise di andarlo a trovare: e l’emozione era forte mentre
saliva sul grande
transatlantico.
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