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Jay Yates, mai imbarcato, 29 anni.
Quando, nel suo modesto appartamento di New York, Jay
Yates lesse sul giornale che il Titanic era affondato e che centinaia di
persone erano morte, capì che la sua grande occasione era venuta. Prese un foglio
di carta e una penna, e si mise a scrivere: “Se non mi dovessi salvare,
informate mia sorella Francis Yates Adams a Findley, Ohio”. Stropicciò per bene
il foglio, ci versò sopra un po’ d’acqua, lo spiegò e lo ripiegò un paio di
volte, dopodiché chiamò un’amica. La donna si finse una superstite del
naufragio e consegnò al New York Post il foglietto inzuppato. Il
giornale – in quei giorni qualsiasi notizia sul naufragio otteneva l’immediata
pubblicazione, e tempo per controllare non ce n’era, e forse neanche voglia: la
gente voleva sapere, e che importa se una cosa è vera, verosimile o falsa – il
giornale dunque pubblicò il messaggio, la sorella del naufrago fu avvertita, e
così la compagnia di navigazione e la polizia. Era soprattutto la polizia ad
interessare Yates; e la polizia, a sua volta, era molto interessata a lui.
Yates era infatti ricercato dall’Fbi per una serie di rapine ad alcuni uffici
postali della costa orientale. Per sfuggire alla cattura, dunque, Yates pensò
bene di fingersi morto. Un morto è più libero di un ricercato, non c’è dubbio.
E nella grande confusione di quei giorni, così pensava Yates, chi mai avrebbe
controllato? Invece controllarono, e videro che il suo nome non compariva sulla
lista dei passeggeri. Forse era stato scritto in modo sbagliato? Forse, pensò
la polizia. Interrogarono la sorella, che non sembrò convincente. Arrestarono
Yates due mesi dopo: non oppose resistenza.
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