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Reverendo John Harper, seconda classe, 38 anni.
John Harper era un pastore battista famoso per le sue prediche.
Nessuno come lui sapeva infiammare i fedeli, nessuno più di lui sapeva
conquistarli e avvincerli. Era stato a Chicago nell’inverno del 1911, e per tre
mesi la comunità della piccola chiesa all’angolo fra la West Chicago e la
LaSalle aveva sgomitato per ascoltarlo. Era un bell’uomo, alto, la fronte
spaziosa, un poco stempiato, il sorriso dolce e gli occhi pungenti come chiodi.
Poteva parlare per due ore senza neppure un appunto in mano. Le donne lo
ammiravano, gli uomini lo stimavano. Da Londra, dove viveva, fu richiamato a
Chicago: la città gli era piaciuta, e decise di partire. Portò con sé Nina, sua
figlia: le voleva bene e desiderava che non restasse sola (la madre era morta
di parto). Con loro una sorella della madre, Jessie. Il reverendo Harper amava
il suo Dio e amava le comunità dove si recava a predicare; ma amava molto anche
la vita, e forse proprio per questo era così bravo nelle sue prediche, nei suoi
discorsi e nelle sue conferenze. Le donne e gli uomini che si mettevano in coda
per ascoltarlo, e che sicuramente lo avrebbero applaudito a lungo se solo
fossero stati a teatro anziché in una chiesa, capivano che il reverendo era
diverso dagli altri, che non era un prete qualsiasi, che anzi non sembrava
proprio un prete, e insomma che era come loro: per questo lo apprezzavano. La
sera del naufragio il reverendo era sul ponte con Jessie a guardare il
tramonto. Restarono in silenzio a lungo, l’uno accanto all’altra, e sicuramente
erano felici. “Domani sarà una bellissima giornata”, disse Harper prima di
ritirarsi in
cabina.
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