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Maria Mathilda Gustafsson, terza classe, 33 anni.
Sulla nave che la riporta in Finlandia, che la riporta
per sempre a casa, sulla nave che la restituisce sola e distrutta ad una vita
che prima le sembrava dura e che ora non saprebbe neppure immaginarsi, sulla
nave che riattraversa l’Atlantico piano piano e che questa volta non incontrerà
né tempeste né uragani né iceberg, sulla nave meno lussuosa di quell’altra, e
anzi decisamente dimessa e assai più piccola, sulla nave che chiude la sua vita
di prima e inaugura una vita senza Karl, Maria Mathilda non ha pensieri per se
stessa e non ha parole per i passeggeri che viaggiano con lei e che,
misteriosamente, già sanno della disgrazia. Maria se ne sta silenziosa e non
esce quasi mai dalla cabina. Non riesce a gettare uno sguardo all’oceano sotto
di lei e intorno a lei, non riesce a raccontare ciò che le è accaduto né a
rispondere alla curiosità pietosa di chi vorrebbe consolarla. Gli sguardi carichi
di rispetto, di pudore e di commiserazione la feriscono anziché consolarla. Le
parole lievemente la irritano, i gesti d’amicizia preferirebbe evitarli, alla
compassione crede di dover sfuggire. In America Maria e Karl c’erano stati già
una volta, e avevano capito che lì la vita poteva essere migliore. Dura, ma
migliore. Karl e Maria non potevano avere figli, ma si erano progettati
ugualmente un futuro. Sulla nave che la riconduce in porto, Maria non riesce
più a immaginare quel futuro; non ha rimpianti; non ha nulla. Il tempo passa
lentamente sull’oceano, e le ore sono tutte uguali nella cabina di terza classe
che divide con tre donne. A loro rivolge appena uno sguardo di cortesia, e
neppure una parola.
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