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Wendla Maria Heininen, terza classe, 23 anni.
Da qualche anno la tomba numero otto del cimitero
Fairview di Halifax, Nova Scotia, ha un nome inciso sul marmo. C’è voluto molto
tempo, e per molto tempo nessuno ha saputo chi riposasse sotto quel cubo di
pietra scura. Dare un nome ai morti è un atto di pietà che sembra
ricongiungersi alla creazione – che è il momento in cui si dà un nome alle
cose. I nomi sono importanti, e la memoria senza nomi non trova appigli,
trascolora e dilegua e non lascia traccia. Si sapeva che era una donna, “età
stimata 25-30, capelli chiari”. Era vestita, quando la ritrovarono rigida e
gelida, con una camicetta a righe rosse e – faceva molto freddo, quella notte –
con tre sottane infilate l’una sull’altra: una verde, una grigia, una di maglia
(e chissà di che colore: marrone, o blu?). Indossava poi un paio di mutandoni
di flanella blu, scarpe e soprascarpe nere, e calze grigie “molto spesse”. Non
si può dire che fosse elegante: questo proprio no. Le fecero, prima di
seppellirla sotto la pietra nera e senza nome, una specie di autopsia; o, per
meglio dire, la misurarono. Non aveva segni particolari, però nella sottana –
nella verde, nella grigia o in quella di maglia? – le trovarono cuciti 150
marchi finlandesi. La camicetta recava due iniziali: “V. H.”. E nessuno sapeva
chi fosse. Così, anziché un nome le diedero un numero, l’otto, e una tomba. La
ragazza (aveva ventitré anni e viaggiava da sola) veniva da Turku e andava a
New York. Ora sappiamo che si chiamava Wendla Maria Heininen. Non è molto: ma
un nome è meglio di un numero, e trovare un nome è come ritrovare, per un
istante, chi l’ha
portato.
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