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Jeremiah Burke, terza classe, 19 anni.
Jeremiah Burke, irlandese di Glanmire, affondò insieme
al Titanic la notte del 14 aprile 1912. Tredici mesi dopo, alla fine di
maggio del 1913, un postino a passeggio con il proprio cane sulla spiaggia di
ghiaia che si allunga a pochi passi dal porto di Cork trovò fra i sassi una
piccola bottiglia sigillata. Dentro c’era un foglio di carta scritto a matita
che diceva: “13/4/1912. Dal Titanic, addio a tutti: Burke di Glanmire, contea
di Queenstown”. La calligrafia – fu la madre a dirlo – era senza ombra di
dubbio quella di Jeremiah. La madre riconobbe subito anche la piccola bottiglia
di vetro: era stata lei a donarla al figlio al momento dell’addio, era piena di
acqua benedetta e avrebbe accompagnato Jeremiah nel Nuovo mondo. Non fu così,
ahimé: ma perché Jeremiah se ne era sbarazzato? l’aveva forse gettata in mare a
Queenstown, quand’era salito sulla nave? Impossibile: almeno così pensava la
madre. Una bottiglia di acqua benedetta è un viatico prezioso che nessuno
getterebbe via senza pensieri. E poi, quella data: il 13 aprile il Titanic
era nel bel mezzo dell’oceano – impossibile, però, anche pensare che una
qualche corrente potesse riportare la bottiglietta fino al porticciolo di Cork.
Qualcuno naturalmente pensò ad uno scherzo macabro: ma la madre non ebbe dubbi
nel riconoscere e la bottiglia e la scrittura del figlio. Il mare che le aveva
strappato per sempre il più piccolo dei figli si mostrò benevolo nel
restituirle quell’acquasantiera improvvisata e nel donarle un ultimo saluto di
Jeremiah – per la signora Burke tanto bastava: e poche settimane dopo
serenamente
morì.
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