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Arthur Gordon McCrae, seconda classe, 32 anni.
Era un ingegnere minerario molto bravo e molto ambizioso.
Aveva studiato al St. Paul’s College dell’Università di Sydney. Era di buona
famiglia (il padre era un dirigente autorevole della Bank of Australasia) e
vestiva in modo impeccabile, si sentiva inglese benché fosse australiano. Era
anche un ragazzo che amava l’avventura, Arthur McCrae: dopo aver completato gli
studi – con ottimi risultati, s’intende – accettò un impiego in Africa
occidentale, in una miniera d’oro; ci restò abbastanza per apprezzare le
bellezze del luogo, guadagnare una discreta quantità di denaro e, infine,
annoiarsi. L’impiego successivo se lo scelse che più diverso e lontano non si
poteva: Akmolinsk, Siberia orientale. Lavorava in una miniera di rame, non
sembrava patire il freddo, beveva moderatamente, amava passeggiare nella neve
avvolto in un’immensa e lucida pelliccia di visone che gli ricadeva sugli
scarponi chiodati. Il freddo gli piaceva più del caldo, la Russia più
dell’Africa. Nella primavera del ’12 partì per un lungo viaggio alla volta del
Canada, dove aveva alcuni amici. Con loro avrebbe trascorso un periodo di
vacanza; forse – conoscendo il suo carattere non sarebbe stato sorprendente –
si sarebbe cercato un nuovo lavoro e avrebbe di nuovo cambiato continente: le
miniere, in Canada, non mancano. Ad ogni modo McCrae non arrivò mai in America.
Il suo cadavere fu ripescato, identificato e seppellito. La famiglia, che
doveva essere cosciente del proprio ruolo in società oltreché addolorata, fece
erigere una pesante croce celtica sul cubo di pietra che ne segnava la tomba: è
la più alta di tutto il cimitero.
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