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Thomas Whiteley, cameriere di prima classe, 18 anni.
Thomas era un ragazzo di diciott’anni con una faccia da
sbruffone e due occhi puntuti come spilli. Si sentiva padrone della vita, e lo
dava a vedere. Non si curava di risultare antipatico, né di apparire arrogante.
Non se ne curava proprio. Sentiva di avere con sé la giovinezza, e tanto gli
bastava. Non si sbagliava, Thomas: perché la giovinezza è più forte della buona
educazione e non abbisogna di compromessi. Serviva a tavola in prima classe, e
si sentiva più forte e anche più astuto di tutti i ricconi cui portava il
pranzo e la cena. Era fatto così, Thomas. Una sera origliò una conversazione al
tavolo del capitano. Erano con lui il medico di bordo, l’anziano e simpatico
dottor O’Loughlin, e Bruce Ismay, nientemeno che il presidente della White
Star. Era insomma il tavolo più importante, il più prestigioso, e il più
autorevole. Mentre Thomas serviva il dessert, vide il dottore alzare il calice
e lo udì esclamare: “Brindiamo al possente Titanic”. Si alzarono tutti,
e tutti brindarono. “Che espressione ridicola”, pensò fra sé Thomas con una
scrollatina di spalle. “Non mi verrebbe mai in mente di dire una cosa come ‘il
possente Titanic’, proprio mai”, sorrise. Non che disprezzasse quella
nave, anzi: però gli sembravano ridicoli quei modo di dire, quelle
esagerazioni, quella ostentazione in fin dei conti immotivata. Era fatto così,
Thomas: era giovane ed era sfrontato. Si salvò perché era forte e coraggioso.
Tutte le scialuppe avevano lasciato la nave; si buttò in mare e nuotò verso una
scialuppa rovesciata; qualcuno lo colpì forte con un remo, per impedirgli d’aggrapparsi;
ma era giovane, Thomas, e si salvò.
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