Jane Richards Quick, seconda classe, 34 anni.

La prima cosa che Jane fa, appena scesa dal Carpathia che l’ha salvata – lei e le due figlie piccole, Phyllis di due anni e Winifred di otto –, la prima cosa che fa, dopo aver salutato il marito, Frederick, che la stava aspettando e che certo non si sarebbe mai aspettato che sua moglie e la sua famiglia arrivassero in America in questo modo, e dopo una tale avventura, e spaventate e infreddolite e piene di terrore, la prima cosa che Jane fa dopo aver abbracciato il marito è un’intervista. La seconda è un’intervista. La terza è una conferenza su nel Michigan, alla periferia di Detroit, dove suo marito ha appena acquistato una casa, la casa che li ospiterà, la loro casa americana. La quarta cosa è un’altra intervista. La quinta – Jane sta perdendo il conto, e forse la pazienza – la quinta cosa che Jane fa è una conferenza o un’intervista o un servizio fotografico. Perché i giornali vogliono sentire la sua storia, e la gente vuol vederla e conoscerla e ascoltarla, e non c’è un attimo di tregua: e Jane, che è un poco civettuola e che dalla tragedia si è ripresa meglio di quanto lei stessa potesse sospettare, ama essere ricercata, corteggiata, fotografata, ascoltata. Forse è proprio questo il suo modo di superare la tragedia, di accantonarla o di catalogarla come se fosse accaduta ad altri. Sì, dev’essere proprio così: non la civetteria, dunque (non solo la civetteria) sta dietro questa ininterrotta esibizione di sé, del dolore, del naufragio; non la civetteria, ma il bisogno di trasferire altrove il ricordo che la tormenta: e adesso che tutti l’hanno ascoltata o vista o letta, adesso che son passati tre mesi, il silenzio può scendere su Jane.