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Hulda Kristina Eugenia Klasén, terza classe, 36 anni.
“Ciò che poté, fece”: con queste parole tratte dalla
Scrittura il fratello di Hulda Klasén suggellò l’annuncio mortuario pubblicato
sul Gotlands Allehanda il 27 aprile 1912. E chissà se era vero. Chissà
se veramente Hulda, una donna di trentasei anni rimasta vedova prima di poter
mettere al mondo un figlio, emigrata all’inizio del secolo negli Stati Uniti,
impiegata come sarta in un sobborgo di Los Angeles, non bella, non ricca,
chissà se veramente Hulda fece tutto ciò che era in suo potere fare.
Bisognerebbe conoscere la sua breve vita non nella cronologia dei fatti e degli
eventi, ma nelle mosse impercettibili che quegli eventi hanno preparato, che
quei fatti hanno accompagnato. Bisognerebbe aver percepito, magari per un
istante soltanto, magari per un brevissimo istante, i pensieri e le speranze e
le illusioni e le velleità di questa donna non bella e non ricca che viveva la
sua vita più o meno come si indossa un cappotto quando fa freddo o una
camicetta quando è estate e il caldo non risparmia il sudore e la sete. Bisognerebbe
forse averla conosciuta, non come un collega di lavoro può averla conosciuta in
quel sobborgo di Los Angeles, e probabilmente neppure come il fratello – che
viveva lontano, troppo lontano – l’aveva conosciuta e credeva ancora di
conoscerla, quando gli giunse dall’America la notizia del disastro:
bisognerebbe forse averla conosciuta come neppure lei stessa, che alle
illusioni e alle velleità e alle speranze tutto sommato aveva rinunciato già da
tempo, pensava di conoscersi. Forse non fu così: forse Hulda non fece tutto ciò
che avrebbe potuto fare.
Forse.
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