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Johan H. Nysveen, terza classe, 61 anni.
Chissà, forse pensava di aver vissuto abbastanza. O
magari, più semplicemente, si sentiva stanco, stanco di quella stanchezza che
non sembra avere una causa immediata e che ogni tanto ti assale e quasi ti
paralizza e ti lascia in balìa degli eventi, a dondolarti e a cullarti e ad
aspettare che passi. Johan Nysveen non era vecchio, e non era neppure stanco:
nel senso che era una persona robusta, e vigorosa, e tutt’altro che pigra. A
sessantun’anni era appena diventato padre di due gemelli. Aveva già avuto
quattro figli dal suo primo matrimonio, sua moglie era morta e lui, che invece
voleva continuare a vivere, dopo quasi trent’anni che mancava era ritornato
nella sua Norvegia e si era risposato. Era dunque un uomo felice. Però quella
sera, chissà perché, si sentiva spossato, e debole, e consegnato ad eventi più
grandi di lui. Così, una volta salito sul ponte con il suo compagno di cabina,
un ragazzo di vent’anni che tentava la fortuna in America proprio come aveva
fatto lui molti molti anni prima, si convinse che non sarebbe mai riuscito a
salvarsi. Si tolse lentamente il cappotto – un cappotto di pelliccia che aveva
appena acquistato in Norvegia – e lo consegnò al suo compagno di viaggio. Poi
fece lo stesso con il vecchio orologio d’oro da cui non si separava mai. Karl –
questo il nome del compagno – accettò quei doni come un viatico e come un
invito alla salvezza. Arrivato in America, prese un treno per Cummings, nel
Nord Dakota, dove viveva la famiglia di Nysveen. Consegnò il cappotto e
l’orologio, e raccontò loro gli ultimi giorni dell’amico, e se ne ripartì più
leggero.
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