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George Patchett, terza classe, 19 anni.
George Patchett era un ragazzo pieno di energia, di
coraggio e di voglia di fare. Veniva dalla campagna e cercava una campagna più
grande e più libera dove farsi una vita degna di essere vissuta. Era nato in un
paesino del Northamptonshire, in Inghilterra, e voleva andare in Canada. Il
Canada gli piaceva più degli Stati Uniti: perché “è più inglese”, diceva agli
amici. E perché gli sembrava più grande e più selvaggio e più libero. Chissà.
John Garfirth, che condivideva con lui la passione per l’avventura e che con
lui si imbarcò per il Nuovo mondo, avrebbe preferito la California. Ma George
fu irremovibile, ed ebbe la meglio. L’unica foto che abbiamo di lui ce lo
ritrae con lo sguardo fisso davanti all’obiettivo, come ipnotizzato e un poco a
disagio. Non è una foto naturale. George se la fece fare prima della partenza,
a Wollaston, perché sapeva che gli sarebbe servita una volta arrivato nella sua
nuova patria. I capelli sono curati, il naso lievemente schiacciato, la bocca
serrata in un’espressione anonima. Non c’è traccia del futuro nei suoi occhi
piccoli e puntuti: è una foto senza destino. Sul bavero della giacca fa
capolino un fiore, forse è un’orchidea e forse è una margherita. L’abito, la
camicia e la cravatta sono inappuntabili. All’inizio del secolo ci si faceva
fotografare così come si andava a messa: era un rito cui ci si preparava con la
dovuta deferenza, indossando l’abito della festa e assumendo un’espressione
compìta. In campagna, a volte, è ancora così. Sono fotografie, queste, che
hanno poco a che spartire con la vita. Vanno bene per un visto d’immigrazione,
o per una lapide.
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