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Bertha Lehmann, seconda classe, 17 anni.
Il padre, accompagnandola alla stazione di Basilea, le
parlò così: “Bertha, ogni volta che siamo insieme mi capita qualche disgrazia.
Ora ho la sensazione che capiti qualche cosa a te”. Bertha Lehmann aveva 17
anni e lasciava Basilea per Cherbourg, dove si sarebbe imbarcata sul Titanic.
La destinazione finale era Central City, Iowa, dove la sorella la stava
aspettando. Le premonizioni sono parte essenziale del mito, di ogni mito:
figuriamoci quando in ballo c’è il naufragio del Titanic. Esiste persino
un romanzo, scritto quattordici anni prima del varo del grande transatlantico
da un tal Morgan Andrew Robertson, il cui protagonista è un Titan che,
pensate un po’, cozza contro un iceberg in mezzo all’Atlantico e affonda come
l’ultima delle barchette. Incredibile, non è vero? C’è sempre qualcuno che
prevede un disastro, quando il disastro si compie. Quando non accade nulla,
nessuno si ricorda delle premonizioni che mancano il bersaglio. È una legge
indiscutibile. Bertha in realtà si salvò, seppur in extremis (riuscì a
salire sull’ultima scialuppa, la “D”), e campò più di settant’anni
sopravvivendo a due mariti e lasciando sei figli. Una foto scattata in tarda
età ce la mostra con un sorriso malizioso, due occhietti vivaci e un cappellino
degno della regina Elisabetta. La premonizione, dunque, era sbagliata. Ma non
lo era ciò che il padre di Bertha aveva detto subito prima, e cioè che la
presenza della figlia, inspiegabilmente, portava scalogna. Tornato a casa, il
signor Lehmann cadde dalle scale e si ruppe il femore, proprio come in una
commedia macabra, e rimase per tre mesi immobilizzato in un letto.
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