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Molti ebrei lasciarono la Russia all’inizio del
secolo, per sfuggire le persecuzioni e per trovare una vita migliore nel Nuovo
mondo. Si portarono appresso la miseria e la Torah e la gioia di vivere e la
lingua yiddish e la musica kletzmer. Samuel Aks, dopo una breve
permanenza a Londra, si era stabilito a Norfolk, in Virginia, e aveva aperto
una piccola sartoria. La moglie, Leah Rosen, s’imbarcò sul Titanic col
figlioletto Philip Frank, dieci mesi appena, per raggiungere il marito.
Conosceva l’inglese, ma ignorava il mare. Si salvò, ma restò sorda da un
orecchio per tutto il resto della vita a causa del freddo patito quella notte.
Il Titanic, è chiaro, non era per lei un buon ricordo. Anzi. La prima
cosa che pensò quando fu in salvo fu di scacciare dalla memoria quella nave e
il nome che portava, e pensare soltanto al futuro che il Signore, benedetto il
suo nome, le aveva voluto donare. Amava invece il nome di un’altra nave, il Carpathia:
perché il Carpathia l’aveva tratta in salvo e perché sul Carpathia
aveva miracolosamente ritrovato il figlioletto da cui la confusione del
naufragio l’aveva separata. Un anno dopo il suo fortunoso arrivo in America, e per
onorare quel futuro che il Signore, benedetto il suo nome, le aveva donato,
Leah Aks diede alla luce una bambina, Sarah. In segno di riconoscenza, decise
di dare alla figlia, come secondo nome, il nome della nave che l’aveva salvata:
Carpathia. Per un curioso capriccio del destino, però, le infermiere – che
conoscevano ciò ch’era accaduto – si sbagliarono e sul certificato di nascita
scrissero: “Sarah Titanic Aks”. Leah non ne fu per niente contenta.
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