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Pierre Maréchal, prima classe, 43 anni.
Dal naufragio, oltre a se stesso, Pierre Maréchal
salvò un libro di racconti di Sherlock Holmes. Era figlio di un ammiraglio
della marina francese, aveva ricevuto una buona educazione e quella sera stava
tranquillamente giocando a bridge al Café Parisien. Queste tre circostanze gli
consentirono di salvarsi e di commentare in modo adeguato lo spettacolo che la
sorte gli aveva apparecchiato: “A tre quarti di miglio dalla nave ci fermammo.
Lo spettacolo che si mostrava ai nostri occhi era straordinario. In un mare
calmo e piatto, sotto un cielo senza luna e intessuto di milioni di stelle,
l’immenso Titanic giaceva sull’oceano, illuminato fino al ponte più
alto. La prua lentamente affondava nell’acqua nera”. È un racconto efficace; o,
per meglio dire, è una fotografia: senza movimenti – se non quello,
impercettibile, della nave che s’inabissa – e senza suoni né rumori né urla.
“Il Titanic – a Maréchal non dispiaceva ripetere il suo racconto, e ogni
ripetizione è un’approssimazione alla verità – era perfettamente immobile, come
un irreale frammento di scenografia teatrale”. Maréchal, ed è qui la sua
grandezza, è il primo a cogliere l’aspetto scenografico e teatrale del
naufragio: e lo coglie in tempo reale, si direbbe oggi, mentre ne gusta e ne
apprezza con incolpevole voluttà lo svolgersi. Il silenzio, l’immobilità, il
tempo come sospeso e il mare che pare una tovaglia nera, il cielo trapunto di
stelle e le mille luci del transatlantico: il mito del Titanic nasce
sulla scialuppa n° 7, la notte fra il 14 e il 15 aprile 1912, negli occhi bene
educati di Pierre Maréchal.
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