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James Dawson, stivatore, 23 anni.
“J. Dawson – morto – il 15 aprile 1912 – 227”: è un cubo di
pietra al cimitero Fairview (che più o meno vuol dire “bellavista”) di Halifax,
sulla costa della Nuova Scozia, ad accogliere quest’epitaffio così scarno. La
pietra è scura e levigata. Il numero che segue la data, 227, indica la
catalogazione del cadavere recuperato in mare. Prima di lui, dunque,
duecentoventisei cadaveri erano già stati raccolti, ordinati, descritti,
numerati. Dev’esser stato un lavoro noioso. I corpi vanno ispezionati con cura,
bisogna prepararne una succinta descrizione e indovinarne l’età (Dawson aveva
23 anni, ma sulla sua scheda scrissero che ne dimostrava 30), così come va
descritto alla bell’e meglio il loro abbigliamento. Poi bisogna ispezionare le
tasche, alla ricerca di effetti personali: lettere, soldi, oggetti, orologi,
un’armonica a bocca oppure un portamonete di cuoio, la fotografia di un parente
o un anello o una manciata di dadi da gioco, chissà. Il cadavere è irrigidito
dalla morte e dal gelo delle acque dell’oceano, e ciò rallenta il lavoro, lo
rende più delicato e difficile, e più lento. Però è un lavoro che va fatto con
scrupolo, perché proprio gli effetti personali, è chiaro, sono preziosi: una
vedova, un cugino lontano, un padre potrebbero venire a reclamarli, perché è
tutto ciò che resta, e ciò che resta va custodito e conservato. I ricordi hanno
bisogno di un appiglio, anche piccolo e sdrucito e insignificante, e anche il
lutto e il dolore preferiscono poggiarsi su qualcosa di solido, di tangibile,
di reale. Dawson, tuttavia, non aveva nulla con sé: di lui resta soltanto quel
laconico cubo di pietra scura.
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