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Nellie Becker, seconda classe, 36 anni.
Per tutta la vita, ogni volta che qualcuno parlava del
Titanic – e a volte bastava l’immagine di un transatlantico, o la parola
“naufragio” letta al giornale radio; per tutta la vita, ogni volta che un
vicino di casa, o un parente, sfioravano quel fatto lontano – e a volte bastava
un cenno, uno sguardo; per tutta la vita Nellie Becker ogni qual volta qualcuno
o qualcosa le ricordasse l’oceano e la traversata e la tragedia scoppiava in
lacrime e le sue lacrime erano inconsolabili. A volte piangeva sommessa e quasi
silenziosa, altre volte i singhiozzi esplodevano come petardi o razzi
segnaletici, altre volte ancora gridava forte forte e calmarla era difficile,
sembrava impossibile, non ci riusciva nessuno. Nellie era partita dall’India
per andare in America; portava con sé i tre figli: il più piccolo, Richard,
s’era ammalato d’un male strano e sconosciuto e per curarlo non c’era che
l’America. Il padre di Richard, che in India faceva il missionario, li avrebbe
raggiunti appena possibile: e li raggiunse, infatti, un anno dopo: ma trovò una
donna distrutta e insonne e piagnucolosa quando aveva lasciato una moglie
serena e affettuosa. Le cose, naturalmente, piano piano migliorarono: e la vita
familiare riprese il suo normale andamento quotidiano; Nellie era più
tranquilla, dormiva la notte e sembrava quella di sempre. Ma del Titanic
non si doveva parlare mai; e a volte accadeva che ugualmente, senza che nessuno
avesse anche soltanto alluso al naufragio, pure Nellie improvvisamente
scoppiasse in lacrime, e le sue lacrime per molti minuti e magari per molte ore
restavano inconsolabili, e non c’era niente da fare.
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