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Ruth Elizabeth Becker, seconda classe, 12 anni.
Se l’era vista proprio brutta, la piccola Ruth:
imbarcarono sulla scialuppa i due fratellini, Richard e Marion, e lei sul ponte
ad aspettare, stordita e sola, mentre i marinai dicevano: “Basta così, la barca
è piena”. La mamma prese un marinaio per il braccio, e lo strattonò, e disse:
“Lasciatemi salire, ci sono i miei figli lì”, e Ruth stordita guardava e non
sapeva parlare, e quando la mamma la vide era ormai troppo tardi, la scialuppa
lentamente calava in mare e non c’era più nulla da fare se non gridare, il
cuore pieno d’angoscia e gli occhi sbarrati dal terrore, e la mamma infatti
gridò: “Ruth, amore mio, salta su un’altra scialuppa…”. Ruth immobile e
stordita guardava la mamma allontanarsi verso l’oceano sotto di lei, e non
sapeva che cosa dire, né dove andare. Forse è per questo che per molti anni a
venire – si salvò, Ruth, per fortuna si salvò e ritrovò la sua famiglia e
benedisse il cielo – per molti anni Ruth del naufragio non volle parlare, e i
suoi figli crebbero senza sapere che la mamma aveva viaggiato sul Titanic
e miracolosamente s’era tratta in salvo. C’è un tempo per ogni cosa, questo lo
si sa, e anche per Ruth venne il tempo dell’oblio e del ricordo. Dimenticò di
esser stata su quella nave e di aver provato quel terrore, e per questa via
poté ricordare l’imbarco e la traversata e il naufragio: come se descrivesse un
film cui aveva assistito nel tepore della sala buia, come se raccontasse un
romanzo d’avventure letto in gioventù. A novant’anni, poi, salì per la prima
volta di nuovo su una nave, in crociera dalla California al Messico, e pochi
mesi dopo serenamente morì.
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