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Luigi Pirandello
Scialle nero

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IV

Il ragionamento di don Filippino era senza dubbio convincente; ma che sicuro aveva intanto lo Scala di quei denari spesi nel fondo di lui? E se don Filippino fosse venuto a mancare d'un colpo, Dio liberi! senza aver tempo e modo di firmar l'atto di vendita, per quel tanto che oramai gli toccava, Saro Trigona, suo unico erede, avrebbe poi riconosciuto quelle spese e il precedente accordo col cugino?
Questo dubbio sorgeva di tanto in tanto nell'animo di don Mattia; ma poi pensava che, a voler forzare don Filippino a cedergli il possesso del fondo, a volerlo mettere alle strette per quei denari anticipati, poteva correre il rischio di sentirsi rispondere: "O infine, chi t'ha costretto ad anticiparmeli? Per me, il fondo poteva restar bene com'era e andar anche in malora: non me ne sono mai curato. Non puoi mica, ora, cacciarmi di casa mia, se io non voglio". Pensava inoltre lo Scala che aveva da fare con un vero galantuomo, incapace di far male, neanche a una mosca. Quanto al pericolo che morisse d'un colpo, questo pericolo non c'era: senza vizii, e viveva così morigeratamente, sempre sano e vegeto, che prometteva anzi di campar cent'anni. Del resto, il termine del comporto era già fissato: alla morte della scimmia, che poco più ormai si sarebbe fatta aspettare.
Era tal fortuna, infine, per lui, il potere acquistar quella terra a così modico prezzo, che gli conveniva star zitto e fidare; gli conveniva tenervi così, anzi, la mano sopra, con quei denari che ci veniva spendendo a mano a mano, quietamente, e come gli pareva e piaceva. Il vero padrone, , era lui; stava più , si può dire, che nel suo podere.
- Fate questo; fate quest'altro.
Comandava; s'abbelliva la campagna, e non pagava tasse. Che voleva di più?
Tutto poteva aspettarsi il povero don Mattia, tranne che quella scimmia maledetta, che tanto lo aveva fatto penare, gli dovesse far l'ultima!
Era solito lo Scala di levarsi prima dell'alba, per vigilare ai preparativi del lavoro prestabilito la sera avanti col garzone; non voleva che questi, dovendo, per esempio, attendere alla rimonda, tornasse due o tre volte dalla costa alla cascina o per la scala, o per la pietra d'affilare la ronca o l'accetta, o per l'acqua o per la colazione: doveva andarsene munito e provvisto di tutto punto, per non perder tempo inutilmente.
- Lo ziro, ce l'hai? Il companatico? Tieni, ti do una cipolla. E svelto, mi raccomando.
Passava quindi, prima che il sole spuntasse, nel podere del Lo Cìcero.
Quel giorno, a causa d'una carbonaja a cui si doveva dar fuoco, lo Scala fece tardi. Erano già passate le dieci. Intanto, la porta della cascina di don Filippino era ancora chiusa, insolitamente. Don Mattia picchiò: nessuno gli rispose: picchiò di nuovo, invano; guardò su ai balconi e alle finestre: chiusi per notte, ancora.
"Che novità?" pensò, avviandosi alla casa colonica vicino, per aver notizie dalla moglie del garzone.
Ma anche trovò chiuso. Il podere pareva abbandonato.
Lo Scala allora si portò le mani alla bocca per farsene portavoce e, rivolto verso la campagna, chiamò forte il garzone. Come questi, poco dopo, dal fondo della piaggia, gli diede la voce, don Mattia gli domandò se don Filippino fosse con lui. Il garzone gli rispose che non s'era visto. Allora, già con un po' d'apprensione, lo Scala tornò a picchiare alla cascina; chiamò più volte: - Don Filippino! Don Filippino! - e, non avendo risposta, né sapendo che pensarne, si mise a stirarsi con una mano quel suo nasone palpitante.
La sera avanti egli aveva lasciato l'amico in buona salute. Malato, dunque, non poteva essere, almeno fino al punto di non poter lasciare il letto per un minuto. Ma forse, ecco, s'era dimenticato di aprir le finestre delle camere poste sul davanti, ed era uscito per la campagna con la scimmia: il portone forse lo aveva chiuso, vedendo che nella casa colonica non c'era alcuno di guardia.
Tranquillatosi con questa riflessione, si mise a cercarlo per la campagna, ma fermandosi di tratto in tratto qua e , dove con l'occhio esperto e previdente dell'agricoltore scorgeva a volo il bisogno di qualche riparo; di tratto in tratto chiamando:
- Don Filippino, oh don Filippììì...
Si ridusse così in fondo alla piaggia, dove il garzone attendeva con tre giornanti a zappare la vigna.
- E don Filippino? Che se n'è fatto? Io non lo trovo.
Ripreso dalla costernazione, di fronte all'incertezza di quegli uomini, a cui pareva strano ch'egli avesse trovata chiusa la villa com'essi la avevano lasciata nell'avviarsi al lavoro, lo Scala propose di ritornar su tutti insieme a vedere che fosse accaduto.
- Ho bell'e capito! Questa mattina è infilata male!
- Quando mai, lui! - badava a dire il garzone. - Di solito così mattiniero...
- Ma gli starà male la scimmia, vedrete! - disse uno dei giornanti. - La terrà in braccio, e non vorrà muoversi per non disturbarla.
- Neanche a sentirsi chiamato, come l'ho chiamato io, non so più quante volte? - osservò don Mattia. - Va' ! Qualcosa dev'essergli accaduto!
Pervenuti su lo spiazzo innanzi alla cascina, tutti e cinque, ora l'uno ora l'altro, si provarono a chiamarlo, inutilmente; fecero il giro della cascina; dal lato di tramontana, trovarono una finestra con gli scuri aperti; si rincorarono:
- Ah! esclamò il garzone. - Ha aperto, finalmente! È la finestra della cucina.
- Don Filippino! - gridò lo Scala. - Mannaggia a voi! Non ci fate disperare!
Attesero un pezzo coi nasi per aria; tornarono a chiamarlo in tutti i modi; alla fine, don Mattia, ormai costernatissimo e infuriato, prese una risoluzione.
- Una scala!
Il garzone corse alla casa colonica e ritornò poco dopo con la scala.
- Monto io! - disse don Mattia, pallido e fremente al solito, scostando tutti.
Pervenuto all'altezza della finestra, si tolse il cappellaccio bianco, vi cacciò il pugno e infranse il vetro, poi aprì la finestra e saltò dentro.
Il focolare, , in cucina, era spento. Non s'udiva nella casa alcun rumore. Tutto, dentro, era ancora come se fosse notte: soltanto dalle fessure delle imposte traspariva il giorno.
- Don Filippino! - chiamò ancora una volta lo Scala: ma il suono della sua stessa voce, in quel silenzio strano, gli suscitò un brivido, dai capelli alla schiena.
Attraversò, a tentoni, alcune stanze; giunse alla camera da letto, anch'essa al bujo. Appena entrato, s'arrestò di botto. Al tenue barlume che filtrava dalle imposte, gli parve di scernere qualcosa, come un'ombra, che si moveva sul letto, strisciando, e dileguava. I capelli gli si drizzarono su la fronte; gli mancò la voce per gridare. Con un salto fu al balcone, lo aprì, si voltò e spalancò gli occhi e la bocca, dal raccapriccio, scotendo le mani per aria. Senza fiato, senza voce, tutto tremante e ristretto in sé dal terrore, corse alla finestra della cucina.
- Su... su, salite! Ammazzato! Assassinato!
- Assassinato? Come! Che dice? - esclamarono quelli che attendevano ansiosamente, slanciandosi tutti e quattro insieme per montare. Il garzone volle andare innanzi agli altri, gridando:
- Piano per la scala! A uno a uno!
Sbalordito, allibito, don Mattia si teneva con tutt'e due le mani la testa, ancora con la bocca aperta e gli occhi pieni di quell'orrenda vista.
Don Filippino giaceva sul letto col capo rovesciato indietro, affondato nel guanciale, come per uno stiramento spasmodico, e mostrava la gola squarciata e sanguinante: teneva ancora alzate le mani, quelle manine che non gli parevano nemmeno, orrende ora a vederle, così scompostamente irrigidite e livide.
Don Mattia e i quattro contadini lo mirarono un pezzo, atterriti; a un tratto, trabalzarono tutt'e cinque, a un rumore che venne di sotto al letto: si guardarono negli occhi; poi, uno di loro si chinò a guardare.
- La scimmia! - disse con un sospiro di sollievo, e quasi gli venne di ridere.
Gli altri quattro, allora, si chinarono anch'essi a guardare.
Tita, accoccolata sotto il letto, con la testa bassa e le braccia incrociate sul petto, vedendo quei cinque che la esaminavano, giro giro, così chinati e stravolti, tese le mani alle tavole del letto e saltò più volte a balziculi, poi accomodò la bocca ad o, ed emise un suono minaccioso:
- Chhhh...
- Guardate! - gridò allora lo Scala. - Sangue... Ha le mani... il petto insanguinati... essa lo ha ucciso!
Si ricordò di ciò che gli era parso di scernere, entrando, e raffermò, convinto:
- Essa, sì! l'ho veduta io, con gli occhi miei! Stava sul letto...
E mostrò ai quattro contadini inorriditi le scigrigne su le gote e sul mento del povero morto:
- Guardate!
Ma come mai? La scimmia? Possibile? Quella bestia ch'egli teneva da tanti anni con sé, notte e giorno?
- Fosse arrabbiata? - osservò uno dei giornanti, spaventato.
Tutt'e cinque, a un tempo, con lo stesso pensiero si scostarono dal letto.
- Aspettate! Un bastone... - disse don Mattia.
E cercò con gli occhi nella camera, se ce ne fosse qualcuno, o se ci fosse almeno qualche oggetto che potesse farne le veci.
Il garzone prese per la spalliera una seggiola e si chinò; ma gli altri, così inermi, senza riparo, ebbero paura e gli gridarono:
- Aspetta! Aspetta!
Si munirono di seggiole anche loro. Il garzone allora spinse la sua più volte sotto il letto: Tita balzò fuori dall'altra parte, s'arrampicò con meravigliosa agilità su per la trabacca del letto, andò ad accoccolarsi in cima al padiglione, e lassù, pacificamente, come se nulla fosse, si mise a grattarsi il ventre, poi a scherzar con le cocche d'un fazzoletto che il povero don Filippino le aveva legato alla gola.
I cinque uomini stettero a mirare quell'indifferenza bestiale, rimbecilliti.
- Che fare, intanto? - domandò lo Scala, abbassando gli occhi sul cadavere; ma subito alla vista di quella gola squarciata, voltò la faccia. - Se lo coprissimo con lo stesso lenzuolo?
- Nossignore! - disse subito il garzone. - Vossignoria dia ascolto a me. Bisogna lasciarlo così come si trova. Io sono qua, di casa, e non voglio impicci con la giustizia, io. Anzi mi siete tutti testimoni.
- Che c'entra adesso! - esclamò don Mattia, dando una spallata.
Ma il garzone riprese ponendo avanti le mani:
- Non si sa mai, con la giustizia, padrone mio! Siamo poveretti, nojaltri, e con noi... so io quel che mi dico...
- Io penso, invece, - gridò don Mattia, esasperato, - penso che lui, , povero pazzo, è morto come un minchione, per la sua stolidaggine, e che io, intanto, più pazzo e più stolido di lui, son bell'e rovinato! Oh, ma - tutti testimoni davvero, voi qua - che in questa campagna io ho speso i miei denari, il sangue mio: lo direte... Ora andate ad avvertire quel bel galantuomo di Saro Trigona e il pretore e il delegato, che vengano a vedere le prodezze di questa... Maledetta! - urlò, con uno scatto improvviso, strappandosi dal capo il cappellaccio e lanciandolo contro la scimmia.
Tita lo colse al volo, lo esaminò attentamente, vi stropicciò la faccia, come per soffiarsi il naso, poi se lo cacciò sotto e vi si pose a sedere. I quattro contadini scoppiarono a ridere, senza volerlo.



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