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Luigi Pirandello
Scialle nero

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III

Indossava un vestito azzurro cupo, che pareva dipinto su la flessibile e formosa persona, alla cui bellezza bionda dava un meraviglioso risalto. Portava in capo un ricco e pur semplice cappello scuro; si abbottonava ancora i guanti.
- Volevo domandarti, - disse, - se non ti occorreva la carrozza, perchè il bajo oggi non si può attaccare alla mia.
Gabriele la guardò, come se ella venisse, così elegante e leggera, da un mondo fittizio, vaporoso, di sogno, dove si parlasse un linguaggio ormai per lui del tutto incomprensibile.
- Come? - disse. - Perché?
- Mah, pare che l'abbiano inchiodato, poverino. Zoppica da un piede.
- Chi?
- Il bajo, non senti?
- Ah, - fece Gabriele, riscotendosi. - Che disgrazia, perbacco!
- Non pretendo che te ne affligga, - disse Flavia, risentita. - Ti ho domandato la carrozza. Andrò a piedi.
E s'avviò per uscire.
- Puoi prenderla; non mi serve, - s'affrettò allora a soggiungere Gabriele. - Esci sola?
- Con Carluccio, Aldo e la Titti sono in castigo.
- Poveri piccini! - sospirò Gabriele, quasi senza volerlo.
Parve a Flavia che questa commiserazione fosse un rimprovero per lei, e pregò il marito di lasciarla fare.
- Ma sì, sì, se hanno fatto male, - diss'egli allora. - Pensavo che, senza aver fatto nulla, si sentiranno forse, tra qualche mese, cader sul capo un ben più grosso castigo.
Flavia si voltò a guardarlo.
- Sarebbe?
- Nulla, cara. Una cosa lievissima, come il velo o una piuma di codesto cappello. La rovina, per esempio, della nostra casa. Ti basta?
- La rovina?
- La miseria, sì. E peggio forse, per me.
- Che dici?
- Ma sì, fors'anche... Ti fo stupire?
Flavia s'appressò, turbata, con gli occhi fissi sul marito, come in dubbio ch'egli non dicesse sul serio.
Gabriele, con un sorriso nervoso su le labbra, rispose piano, con calma, alle trepide domande di lei, come se non si trattasse della propria rovina; poi nel veder la moglie sconvolta:
- Eh, mia cara! - esclamò. - Se ti fossi curata un tantino di me, se avessi, in tanti anni, cercato d'intendere che piacere mi procurava questo mio grazioso lavoro, non proveresti ora tanto stupore. Non tutti i sacrifizi sono possibili. E quando un pover uomo è costretto a farne uno superiore alle proprie forze...
- Costretto? Chi t'ha costretto? - disse Flavia, interrompendolo, poiché egli con la voce aveva pigiato su quella parola.
Gabriele guardò la moglie, come frastornato dall'interruzione e dall'atteggiamento di sfida, ch'ella, dominando ora l'interna agitazione, assumeva di fronte a lui. Sentì come un rigurgito di bile salirgli alla gola e inaridirgli la bocca. Riaprendo tuttavia le labbra al sorriso nervoso di prima, ora più squallido, domandò:
- Spontaneamente, allora?
- Io, no! - soggiunse con forza Flavia, guardandolo negli occhi. - Se per me, avresti potuto risparmiartelo, codesto sacrifizio. La miseria più squallida io l'avrei mille volte preferita...
- Sta' zitta! - gridò egli infastidito. - Non lo dire, finché non sai che cosa sia!
- La miseria? Ma che n'ho avuto io, della vita?
- Ah, tu? E io?
Rimasero un pezzo accesi e vibranti, l'uno di fronte all'altra, quasi sgomenti del loro odio intimo reciproco, covato per tanti anni nascostamente e scoppiati ora, all'improvviso, senza la loro volontà.
- Perché dunque ti lagni di me? - riprese Flavia con impeto. - Se io di te non mi sono mai curata, e tu quando di me? Mi rinfacci ora il tuo sacrificio, come se non fossi stata sacrificata anch'io, e condannata qua a rappresentare per te la rinunzia alla vita che tu sognavi! E per me doveva esser questa, la vita? Non dovevo sognar altro, io? Tu, nessun dovere d'amarmi. La catena che t'imprigionava qua, a un lavoro forzato. Si può amar la catena? E io dovevo esser contenta, è vero? che tu lavorassi, e non pretendere altro da te. Non ho mai parlato. Ma tu mi provochi, ora.
Gabriele s'era nascosto il volto con le mani, mormorando di tratto in tratto: - Anche questo!... anche questo!... - Alla fine proruppe:
- E anche i miei figli, è vero? verranno qua, adesso, a buttarmi in faccia, come uno straccio inutile, il mio sacrifizio?
- Tu falsi le mie parole, - rispose ella, scrollando una spalla.
- Ma no! - seguitò Gabriele con foga mordace. - Non merito altro ringraziamento. Chiamali! Chiamali! Io li ho rovinati; e me lo rinfacceranno con ragione!
- No! - s'affrettò a dir Flavia, intenerendosi per i figliuoli. - Poveri piccini, non ti rinfacceranno la miseria... no!
Strizzò gli occhi, s'afferrò le mani e le scosse in aria.
- Come faranno? - esclamò. - Cresciuti così...
- Come? - scattò egli. - Senza guida, è vero? Anche questo mi butteranno in faccia? Va', va' ad imbeccarli! Anche i rimproveri di Lucio Sarti, per giunta?
- Che c'entra Lucio Sarti? - fece Flavia, stordita da quell'improvvisa domanda.
- Ripeti le sue parole, - incalzò Gabriele, pallidissimo, sconvolto. - Non ti resta che da metterti sul naso le sue lenti da miope.
Flavia trasse un lungo sospiro e, socchiudendo gli occhi con calmo disprezzo, disse:
- Chiunque sia per poco entrato nell'intimità della nostra casa, ha potuto accorgersi...
- No, lui! - la interruppe Gabriele, con maggior violenza. - Lui soltanto! lui che è cresciuto come un aguzzino di se stesso, perché suo padre...
S'arrestò, pentito di ciò che stava per dire, e riprese:
- Non gliene fo carico; ma dico che lui aveva ragione di vivere com'ha vissuto, vigilando, pauroso, rigido, ogni suo minimo atto: doveva sollevarsi, sotto gli occhi della gente, dalla miseria, dall'ignominia, in cui lo avevano gettato i suoi genitori. Ma i miei figliuoli, perché? Perché avrei dovuto essere un tiranno, io, per i miei figliuoli?
- Chi dice tiranno? - si provò a osservare Flavia.
- Ma liberi, liberi! - proruppe egli. - Io volevo che crescessero liberi i miei figliuoli, poiché io ero stato dannato qua da mio padre, a questo supplizio! E come un premio mi ripromettevo, unico premio! di godere della loro libertà, almeno, procacciata a costo del mio sacrifizio, della mia esistenza spezzata... inutilmente, ora, inutilmente spezzata...
A questo punto, come se l'orgasmo a mano a mano cresciuto gli si fosse a un tratto spezzato dentro, egli scoppiò in irrefrenabili singhiozzi; poi, in mezzo a quel pianto strano, convulso, quasi rabbioso, alzò le braccia tremanti, soffocato, e s'abbandonò, privo di sensi.
Flavia, smarrita, atterrita, chiamò ajuto. Accorsero dalle stanze del banco il Bertone e un altro scritturale. Gabriele fu sollevato e adagiato sul canapè, mentre Flavia, vedendogli il volto soffuso d'un pallore cadaverico e bagnato del sudore della morte, smaniava, disperata:
- Che ha? che ha? Dio, ma guardi... Ajuto!... Ah, per causa mia!...
Lo scritturale corse a chiamare il dottor Sarti, che abitava vicino.
- Per causa mia!... per causa mia!... - ripeteva Flavia.
- No, signora, - le disse il Bertone, tenendo amorosamente un braccio sotto il capo di Gabriele. - Da stamattina... Ma già, da un pezzo, qua... Povero figliuolo... Se lei sapesse!
- So! So!
- E che vuole, dunque? Per forza!
Intanto urgeva, urgeva un rimedio. Che fare? Bagnargli le tempie? Sì... ma meglio forse un po' d'etere. Flavia sonò il campanello; accorse un cameriere:
- L'etere! la boccetta dell'etere: su, presto!
- Che colpo... che colpo, povero figliuolo! - si rammaricava piano il Bertone, contemplando tra le lagrime il volto del padrone.
- La rovina... proprio? - gli domandò Flavia, con un brivido.
- Se m'avesse dato ascolto!... - sospirò il vecchio commesso. Ma egli, poverino, non era nato per stare qui...
Ritornò di corsa il cameriere, con la boccetta dell'etere.
- Nel fazzoletto?
- No: meglio nella stessa boccetta! Qua... qua... - suggerì il Bertone. - Vi metta il dito su... così, che possa aspirare pian piano...
Sopravvenne poco dopo, ansante, Lucio Sarti, seguito dallo scritturale.
Alto, dall'aspetto rigido, che toglieva ogni grazia alla fine bellezza dei lineamenti quasi femminili, il Sarti portava, molto aderenti a gli occhi acuti, un pajo di piccole lenti. Quasi senza notare la presenza di Flavia, egli scostò tutti, e si chinò a osservare Gabriele; poi, rivolto a Flavia che affollava di domande e d'esclamazioni la sua ansia angosciosa, disse con durezza:
- Non fate così, vi prego. Lasciatemi ascoltare.
Scoprì il petto del giacente, e vi poggiò l'orecchio, dalla parte del cuore. Ascoltò un pezzo; poi si sollevò, turbato, e si tastò in petto, come per cercare nelle tasche interne qualcosa.
- Ebbene? - chiese ancora Flavia.
Egli trasse lo stetoscopio, e domandò:
- C'è caffeina, in casa?
- No... io non so, - s'affrettò a rispondere Flavia. - Ho mandato a prender l'etere...
- Non giova.
S'appressò alla scrivania, scrisse una ricetta, la porse allo scritturale.
- Ecco. Presto.
Subito dopo, anche il Bertone fu spedito di corsa alla farmacia per una siringhetta da iniezioni, che il Sarti non aveva con sé.
- Dottore... - supplicò Flavia.
Ma il Sarti, senza darle retta, s'appressò di nuovo al canapè. Prima di chinarsi a riascoltare il giacente, disse, senza voltarsi:
- Fate disporre per portarlo su.
- Va', va'! - ordinò Flavia al cameriere: poi, appena uscito questi, afferrò per un braccio il Sarti e gli domandò, guardandolo negli occhi: - Che ha? È grave? Voglio saperlo!
- Non lo so bene ancora neanche io, - rispose il Sarti con calma forzata.
Poggiò lo stetoscopio sul petto del giacente e vi piegò l'orecchio per ascoltare. Ve lo tenne a lungo, a lungo, serrando di tratto in tratto gli occhi, contraendo il volto, come per impedirsi di precisare i pensieri, i sentimenti che lo agitavano, durante quell'esame. La sua coscienza turbata, sconvolta da ciò che percepiva nel cuore dell'amico, era in quel punto incapace di riflettere in sé quei pensieri e quei sentimenti, né egli voleva che vi si riflettessero, come se ne avesse paura.
Quale un febbricitante che, abbandonato al bujo, in una camera, senta d'improvviso il vento sforzar le imposte della finestra, rompendone con fracasso orribile i vetri, e si trovi d'un tratto smarrito, vaneggiante, fuor del letto, contro i lampi e la furia tempestosa della notte, e pur tenti con le deboli braccia di richiudere le imposte; egli cercava d'opporsi affinché il pensiero veemente dell'avvenire, la luce sinistra d'una tremenda speranza non irrompessero in lui, in quel momento: quella stessa speranza, di cui tanti e tanti anni addietro, liberatosi dall'incubo orrendo della madre, lusingato dall'incoscienza giovanile, s'era fatta come una meta luminosa, alla quale gli era parso d'aver qualche diritto d'aspirare per tutto quello che gli era toccato soffrire senza sua colpa. Allora, ignorava che Flavia Orsani, la cugina del suo amico e benefattore, fosse ricca, e che il padre di lei, morendo, avesse affidato al fratello le sostanze della figliuola: la credeva un'orfana accolta per carità in casa dello zio. E dunque, forte della testimonianza di ogni atto della sua vita, intesa tutta a cancellare il marchio d'infamia che il padre e la madre gli avevano inciso su la fronte; quando sarebbe ritornato in paese, con la laurea di medico, e si sarebbe formata un'onesta posizione, non avrebbe potuto chiedere agli Orsani, in prova dell'affetto che gli avevano sempre dimostrato, la mano di quell'orfana, di cui già si lusingava di goder la simpatia? Ma Flavia, poco dopo il ritorno di lui dagli studii, era diventata moglie di Gabriele, a cui egli, è vero, non aveva mai dato alcun motivo di sospettare il suo amore per la cugina. Sì; ma gliel'aveva pur tolta; e senza fare la propria felicità, né quella di lei. Ah, non per lui soltanto quelle nozze, ma per se stesse erano state un delitto; datava da allora la sciagura di tutti e tre. Per tanti anni, come se nulla fosse stato, egli aveva assistito in qualità di medico, in ogni occasione, la nuova famigliuola dell'amico, celando sotto una rigida maschera impassibile lo strazio che la triste intimità di quella casa senza amore gli cagionava, la vista di quella donna abbandonata a se stessa, che pur dagli occhi lasciava intendere quale tesoro d'affetti serbasse in cuore, non richiesti e neppur forse sospettati dal marito; la vista di quei bambini che crescevano senza guida paterna. E si era negato perfino di scrutar negli occhi di Flavia o d'avere da qualche parola di lei un cenno fuggevole, una prova anche lieve che ella, da fanciulla, si fosse accorta dell'affetto che gli aveva ispirato. Ma questa prova, non cercata, non voluta, gli s'era offerta da sé in una di quelle occasioni, in cui la natura umana spezza e scuote ogni imposizione, infrange ogni freno sociale e si scopre qual è, come un vulcano che per tanti inverni si sia lasciato cader neve e neve e neve addosso, a un tratto rigetta quel gelido mantello e scopre al sole le fiere viscere infocate. E l'occasione era stata appunto la malattia del bambino. Tutto immerso negli affari, Gabriele non aveva neppur sospettato la gravità del male e aveva lasciato sola la moglie a trepidare per la vita dei figliuolo; e Flavia in un momento di suprema angoscia, quasi delirante, aveva parlato, s'era sfogata con lui, gli aveva lasciato intravedere che ella aveva tutto compreso, sempre, sempre, fin dal primo momento.
E ora?
- Ditemi, per carità, dottore! - insistette Flavia, esasperata, nel vederlo così sconvolto e taciturno. È grave assai?
- Sì, - rispose egli, cupo, bruscamente.
- Il cuore? Che male? Così all'improvviso? Ditemelo!
- Vi giova saperlo? Termini di scienza: che c'intendereste?
Ma ella volle sapere.
- Irreparabile? - chiese poi.
Egli si tolse le lenti, strizzò gli occhi, poi esclamò:
- Ah, non così, non così, credetemi! Vorrei potergli dare la mia vita.
Flavia diventò pallidissima; guardò il marito, e disse più col cenno che con la voce:
- Tacete.
- Voglio che lo sappiate, - aggiunse egli. - Ma già m'intendete, non è vero? Tutto, tutto quello che mi sarà possibile... Senza pensare a me, a voi...
- Tacete, - ripeté ella, come inorridita.
Ma egli seguitò:
- Abbiate fiducia in me. Non abbiamo nulla da rimproverarci. Del male ch'egli mi fece, non ha sospetto, e non ne avrà. Avrà tutte le cure che potrà prestargli l'amico più devoto.
Flavia, ansante, vibrante, non staccava gli occhi dal marito.
- Si riscuote! - esclamò a un tratto.
Il Sarti si volse a guardare.
- No...
- Sì, s'è mosso, - aggiunse ella piano.
Rimasero un pezzo sospesi, a spiare. Poi egli si accostò al canapè, si chinò sul giacente, gli prese il polso e chiamò:
- Gabriele... Gabriele...




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