Tutti, a sentirlo parlare, credevano che lo Scala avesse già dimenticato i dolori passati e non si curasse più di nulla ormai, tranne di quel suo pezzetto di terra, da cui non si staccava più da anni, nemmeno per un giorno. Del figliuolo scomparso, sperduto per il mondo, - se qualche volta ne parlava, perché qualcuno gliene moveva il discorso - si sfogava a dir male, per l'ingratitudine che gli aveva dimostrata, per il cuor duro di cui aveva dato prova. - Se è vivo, - concludeva - è vivo per sé; per me, è morto, e non ci penso più. Diceva così, ma, intanto, non partiva per l'America da tutti quei dintorni un contadino, dal quale non si recasse di nascosto, alla vigilia della partenza, per consegnargli segretamente una lettera indirizzata a quel suo figliuolo. - Non per qualche cosa, oh! Se niente niente t'avvenisse di vederlo o d'averne notizia, laggiù. Molte di quelle lettere gli eran tornate indietro, con gli emigranti rimpatriati dopo quattro o cinque anni, gualcite, ingiallite, quasi illeggibili ormai. Nessuno aveva visto Neli, né era riuscito ad averne notizia, né all'Argentina, né al Brasile, né a gli Stati Uniti. Egli ascoltava, poi scrollava le spalle: - E che me n'importa? Da' qua, da' qua. Non mi ricordavo più neanche d'averti dato questa lettera per lui. Non voleva mostrare a gli estranei la miseria del suo cuore, l'inganno in cui sentiva il bisogno di persistere ancora: che il figlio, cioè, fosse là, in America, in qualche luogo remoto, e che dovesse un giorno o l'altro ritornare, venendo a sapere ch'egli s'era adattato alla nuova condizione e possedeva una campagna, dove viveva tranquillo, aspettandolo. Era poca, veramente, quella terra; ma da parecchi anni don Mattia covava, di nascosto al Butera, il disegno d'ingrandirla, acquistando la terra d'un suo vicino, col quale già s'era messo a prezzo e accordato. Quante privazioni, quanti sacrifizii non s'era imposti, per metter da parte quanto gli bisognava per attuare quel suo disegno! Era poca, sì, la sua terra; ma da un pezzo egli, affacciandosi al balcone della cascina, s'era abituato a saltar con gli occhi il muro di cinta tra il suo podere e quello del vicino e a considerar come sua tutta quanta quella terra. Raccolta la somma convenuta, aspettava solamente che il vicino si risolvesse a firmare il contratto e a sloggiare di là. Gli sapeva mill'anni, allo Scala; ma, per disgrazia, gli era toccato ad aver da fare con un benedett'uomo! Buono, badiamo, quieto, garbato, remissivo, don Filippino Lo Cìcero, ma senza dubbio un po' svanito di cervello. Leggeva dalla mattina alla sera certi libracci latini, e viveva solo in campagna con una scimmia che gli avevano regalata. La scimmia si chiamava Tita; era vecchia e tisica per giunta. Don Filippino la curava come una figliuola, la carezzava, s'assoggettava senza mai ribellarsi a tutti i capricci di lei; con lei parlava tutto il giorno, certissimo d'esser compreso. E quando essa, triste per la malattia, se ne stava arrampicata su la trabacca del letto, ch'era il suo posto preferito, egli, seduto su la poltrona, si metteva a leggerle qualche squarcio delle Georgiche o delle Bucoliche: - Tityre, tu patulae... Ma quella lettura era di tratto in tratto interrotta da certi soprassalti d'ammirazione curiosissimi: a qualche frase, a qualche espressione, talvolta anche per una semplice parola, di cui don Filippino comprendeva la squisita proprietà o gustava la dolcezza, posava il libro su le ginocchia, socchiudeva gli occhi e si metteva a dire celerissimamente: - Bello! bello! bello! bello! bello! - abbandonandosi man mano su la spalliera, come se svenisse dal piacere. Tita allora scendeva dalla trabacca e gli montava sul petto, angustiata, costernata; don Filippino la abbracciava e le diceva, al colmo della gioja: - Senti, Tita, senti... Bello! bello! bello! bello! bello... Ora don Mattia Scala voleva la campagna: aveva fretta, cominciava a essere stufo, e aveva ragione: la somma convenuta era pronta - e notare che quel denaro a don Filippino avrebbe fatto tanto comodo; ma, Dio benedetto, come avrebbe poi potuto in città gustar la poesia pastorale e campestre del suo divino Virgilio? - Abbi pazienza, caro Mattia! La prima volta che lo Scala s'era sentito rispondere così, aveva sbarrato tanto d'occhi: - Mi burlate, o dite sul serio? Burlare? Ma neanche per sogno! Diceva proprio sul serio, don Filippino. Certe cose lo Scala, ecco, non le poteva capire. E poi c'era Tita, Tita ch'era abituata a vivere in campagna, e che forse non avrebbe più saputo farne a meno, poverina. Nei giorni belli don Filippino la conduceva a passeggio, un po' facendola camminare pian pianino coi suoi piedi, un po' reggendola in braccio, come fosse una bambina; poi sedeva su qualche masso a piè d'un albero; Tita allora s'arrampicava sui rami e, spenzolandosi, afferrata per la coda, tentava di ghermirgli la papalina per il fiocco o di acciuffargli la parrucca o di strappargli il Virgilio dalle mani. - Bonina, Tita, bonina! Fammi questo piacere, povera Tita! Povera, povera, sì, perché era condannata, quella cara bestiola. E Mattia Scala, dunque, doveva avere ancora un po' di pazienza. - Aspetta almeno, - gli diceva don Filippino - che questa povera bestiola se ne vada. Poi la campagna sarà tua. Va bene? Ma era già passato più d'un anno di comporto, e quella brutta bestiaccia non si risolveva a crepare. - Vogliamo farla invece guarire? - gli disse un giorno lo Scala. - Ho una ricetta coi fiocchi! Don Filippino lo guardò sorridente, ma pure con una cert'ansia, e domandò: - Mi burli? - No. Sul serio. Me l'ha data un veterinario che ha studiato a Napoli: bravissimo. - Magari, caro Mattia! - Dunque fate così. Prendete quanto un litro d'olio fino. Ne avete, olio fino? ma fino, proprio fino? - Lo compro, anche se dovessi pagarlo sangue di papa. - Bene. Quanto un litro. Mettetelo a bollire, con tre spicchi d'aglio, dentro. - Aglio? - Tre spicchi. Date ascolto a me. Quando l'olio comincerà a muoversi, prima che alzi il bollo, toglietelo dal fuoco. Prendete allora una buona manata di farina di Majorca e buttatecela dentro. - Farina di Majorca? - Di Majorca, gnorsì. Mestate; poi, quando si sarà ridotta come una pasta molle, oleosa, applicatela, ancora calda, sul petto e su le spalle di quella brutta bestia; ricopritela ben bene di bambagia, di molta bambagia, capite? - Benissimo: di bambagia; e poi? - Poi aprite una finestra e buttatela giù. - Ohooo! - miaolò don Filippino. - Povera Tita! - Povera campagna, dico io! Voi non ci badate; io debbo guardarla da lontano, e intanto, pensate: non c'è più vigna; gli alberi aspettano da una diecina d'anni almeno, la rimonda; i frutici crescono senza innesti, coi polloni sparpagliati, che si succhian la vita l'un l'altro e par che chiedano ajuto da tutte le parti; di molti olivi non resta che da far legna. Che debbo comperarmi, alla fine? Possibile seguitare così? Don Filippino, a queste rimostranze, faceva una faccia talmente afflitta, che don Mattia non si sentiva più l'animo d'aggiunger altro. Con chi parlava, del resto? Quel pover uomo non era di questo mondo. Il sole, il sole vero, il sole della giornata non era forse mai sorto per lui: per lui sorgevano ancora i soli del tempo di Virgilio. Aveva vissuto sempre là, in quella campagna, prima insieme con lo zio prete, che, morendo, gliel'aveva lasciata in eredità, poi sempre solo. Orfano a tre anni, era stato accolto e cresciuto da quello zio, appassionato latinista e cacciatore per la vita. Ma di caccia don Filippino non s'era mai dilettato, forse per l'esperienza fatta su lo zio, il quale - quantunque prete - era terribilmente focoso: l'esperienza cioè, di due dita saltate a quella buon'anima, dalla mano sinistra, nel caricare il fucile. Si era dato tutto al latino, lui, invece, con passione quieta, contentandosi di svenire dal piacere, parecchie volte, durante la lettura; mentre l'altro, lo zio prete, si levava in piedi, nei suoi soprassalti d'ammirazione, infocato in volto, con le vene della fronte così gonfie che pareva gli volessero scoppiare, e leggeva ad altissima voce e in fine prorompeva, scaraventando il libro per terra o su la faccia rimminchionita di don Filippino: - Sublime, santo diavolo! Morto di colpo questo zio, don Filippino era rimasto padrone della campagna; ma padrone per modo di dire. In vita, lo zio prete aveva anche posseduto una casa nella vicina città, e questa casa aveva lasciato nel testamento al figliuolo di un'altra sua sorella, il quale si chiamava Saro Trigona. Ora forse, costui, considerando la propria condizione di sfortunato sensale di zolfo, di sfortunatissimo padre di famiglia con una caterva di figliuoli, s'aspettava che lo zio prete lasciasse tutto a lui, la casa e la campagna, con l'obbligo, si capisce, di prendere con sé e di mantenere, vita natural durante, il cugino Lo Cìcero, il quale, cresciuto sempre come un figlio di famiglia, sarebbe stato inetto, per altro, ad amministrar da sé quella campagna. Ma, poiché lo zio non aveva avuto per lui questa considerazione, Saro Trigona, non potendo per diritto, cercava di trar profitto in tutte le maniere anche dell'eredità del cugino, e mungeva spietatamente il povero don Filippino. Quasi tutti i prodotti della campagna andavano a lui: frumento, fave, frutta, vino, ortaggi; e, se don Filippino ne vendeva qualche parte di nascosto, come se non fosse roba sua, il cugino Saro, scoprendo la vendita, gli piombava in campagna su le furie, quasi avesse scoperto una frode a suo danno, e invano don Filippino gli dimostrava umilmente che quel denaro gli serviva per i molti lavori di cui la campagna aveva bisogno. Voleva il denaro: - O mi uccido! - gli diceva, accennando di cavar la rivoltella dal fodero sotto la giacca. - Mi uccido qua, davanti a te Filippino, ora stesso! Perché non ne posso più, credimi! Nove figliuoli, Cristo sacrato, nove figliuoli che mi piangono per il pane! E meno male quando veniva solo, in campagna, a far quelle scenate! Certe volte conduceva con sé la moglie e la caterva dei figliuoli. A don Filippino, abituato a vivere sempre solo, gli pareva d'andar via col cervello. Quei nove nipoti, tutti maschi, il maggiore dei quali non aveva ancora quattordici anni, quantunque "piangenti per il pane" prendevano d'assalto, come nove demonii scatenati, la tranquilla casa campestre dello zio; gli mettevano tutto sossopra: ballavano, ballavano proprio quelle stanze, dagli urli, dalle risa, dai pianti, dalle corse sfrenate; poi s'udiva, immancabilmente, il fracasso, il rovinio di qualche grossa rottura, almeno almeno di qualche specchio d'armadio andato in briciole; allora Saro Trigona balzava in piedi, gridando: - Faccio l'organo! faccio l'organo! Rincorreva, acciuffava quelle birbe; distribuiva calci, schiaffi, pugni, sculacciate; poi, com'essi si mettevano a strillare in tutti i toni, li disponeva in fila, per ordine d'altezza, e così facevano l'organo. - Fermi là! Belli... belli davvero, guarda, Filippino! Non sono da dipingere? Che sinfonia! Don Filippino si turava gli orecchi, chiudeva gli occhi e si metteva a pestare i piedi dalla disperazione. - Mandali via! Rompano ogni cosa; si portino via casa, alberi, tutto; ma lasciatemi in pace per carità! Aveva torto, però, don Filippino. Perché la cugina, per esempio, non veniva mai con le mani vuote a trovarlo in campagna: gli portava qualche papalina ricamata, con un bel fiocco di seta: come no? quella che teneva in capo; o un pajo di pantofole gli portava, pur ricamate da lei: quelle che teneva ai piedi. E la parrucca? Dono e attenzione del cugino, per guardarlo dai raffreddori frequenti, a cui andava soggetto, per la calvizie precoce. Parrucca di Francia! Gli era costata un occhio, a Saro Trigona. E la scimmia, Tita? Anch'essa, regalo della cugina: regalo di sorpresa, per rallegrare gli ozii e la solitudine del buon cugino esiliato in campagna. Come no? - Somarone, scusate, somarone! - gli gridava don Mattia Scala. - O perché mi fate ancora aspettare a pigliar possesso? Firmate il contratto, levatevi da questa schiavitù! Col denaro che vi do io, voi senza vizii, voi con così pochi bisogni, potreste viver tranquillo, in città, gli anni che vi restano. Siete pazzo? Se perdete ancora altro tempo per amore di Tita e di Virgilio, vi ridurrete all'elemosina, vi ridurrete! Perché don Mattia Scala, non volendo che andasse in malora il podere ch'egli considerava già come suo, s'era messo ad anticipare al Lo Cìcero parte della somma convenuta. - Tanto, per la potatura; tanto per gl'innesti; tanto per la concimazione... Don Filippino, diffalchiamo! - Diffalchiamo! - sospirava don Filippino. - Ma lasciami stare qui. In città, vicino a quei demonii, morirei dopo due giorni. Tanto a te non do ombra. Non sei tu qua il padrone, caro Mattia? Puoi far quello che ti pare e piace. Io non ti dico niente. Basta che tu mi lasci star tranquillo... - Sì. Ma intanto, - gli rispondeva lo Scala - i beneficii se li gode vostro cugino! - Che te ne importa? - gli faceva osservare il Lo Cìcero. - Questo denaro tu dovresti darmelo tutto in una volta, è vero? Me lo dai invece così, a spizzico; e ci perdo io, in fondo, perché, diffalcando oggi, diffalcando domani, mi verrà un giorno a mancare, mentre tu lo avrai speso qua, a beneficar la terra che allora sarà tua.