La casa di Dima Chiarenza sorgeva su la piazza principale del paese. Era una casa antica, a due piani, annerita dal tempo, innanzi alla quale solevano fermarsi con le loro macchinette fotografiche i forestieri, inglesi e tedeschi che si recavano a veder le zolfare, destando una certa meraviglia mista di dileggio o di commiserazione negli abitanti del paese, per i quali quella casa non era altro che una cupa decrepita stamberga, che guastava l'armonia della piazza, col palazzo comunale di fronte, stuccato e lucido, che pareva di marmo, e maestoso anche, con quel loggiato a otto colonne; la Matrice di qua, il Palazzo della Banca Commerciale di là, che aveva a pianterreno uno splendido Caffè da una parte, dall'altra il Circolo di Compagnia. Il Municipio, secondo i soci di questo Circolo, avrebbe dovuto provvedere a quello sconcio, obbligando il Chiarenza a dare almeno un intonaco decente alla sua casa. Avrebbe fatto bene anche a lui, dicevano: gli si sarebbe forse schiarita un po' la faccia che, da quando era entrato in quella casa, gli era diventata dello stesso colore. - Però - soggiungevano - volendo esser giusti, gliel'aveva recata in dote la moglie, quella casa, ed egli, proferendo il sì sacramentale, s'era forse obbligato a rispettare la doppia antichità. Don Mattia Scala e Saro Trigona trovarono nella vasta anticamera quasi buja una ventina di contadini, vestiti tutti, su per giù, allo stesso modo, con un greve abito di panno turchino scuro; scarponi di cuojo grezzo imbullettati, ai piedi; in capo, una berretta nera a calza con la nappina in punta: alcuni portavano gli orecchini; tutti, essendo domenica, rasi di fresco. - Annunziami, - disse il Trigona al servo che se ne stava seduto presso la porta, innanzi a un tavolinetto, il cui piano era tutto segnato di cifre e di nomi. - Abbiano pazienza un momento, - rispose il servo, che guardava stupito lo Scala, conoscendo l'antica inimicizia di lui per il suo padrone. - C'è dentro don Tino Làbiso. - Anche lui? Disgraziato! - borbottò don Mattia, guardando i contadini in attesa, stupiti come il servo della presenza di lui in quella casa. Poco dopo, dall'espressione dei loro volti lo Scala poté facilmente argomentare chi fra essi veniva a saldare il suo debito, chi recava soltanto una parte della somma tolta in prestito e aveva già negli occhi la preghiera che avrebbe rivolta all'usurajo perché avesse pazienza per il resto fino al mese venturo; chi non portava nulla e pareva schiacciato sotto la minaccia della fame, perché il Chiarenza lo avrebbe senza misericordia spogliato di tutto e buttato in mezzo a una strada. A un tratto, l'uscio del banco s'aprì, e Tino Làbiso, col volto infocato, quasi paonazzo, con gli occhi lustri, come se avesse pianto, scappò via senza veder nessuno, tenendo in mano il suo pezzolone a dadi rossi e neri: l'emblema della sua sfortunata prudenza. Lo Scala e il Trigona entrarono nella sala del banco. Era anch'essa quasi buja, con una sola finestra ferrata, che dava su un angusto vicoletto. Di pieno giorno, il Chiarenza doveva tenere su la scrivania il lume acceso, riparato da un mantino verde. Seduto su un vecchio seggiolone di cuojo innanzi alla scrivania, il cui palchetto a casellario era pieno zeppo di carte, il Chiarenza teneva su le spalle uno scialletto, in capo una papalina, e un pajo di mezzi guanti di lana alle mani orribilmente deformate dall'artritide. Quantunque non avesse ancora quarant'anni, ne mostrava più di cinquanta, la faccia gialla, itterica, i capelli grigi, fitti, aridi che gli si allungavano come a un malato su le tempie. Aveva, in quel momento, gli occhiali a staffa rialzati su la fronte stretta, rugosa, e guardava innanzi a sé con gli occhi torbidi, quasi spenti sotto le grosse palpebre gravi. Evidentemente, si sforzava di dominare l'interna agitazione e di apparir calmo di fronte allo Scala. La coscienza della propria infamità, non gl'ispirava ora che odio, odio cupo e duro, contro tutti e segnatamente contro il suo antico benefattore, sua prima vittima. Non sapeva ancora che cosa lo Scala volesse da lui; ma era risoluto a non concedergli nulla, per non apparire pentito d'una colpa ch'egli aveva sempre sdegnosamente negata, rappresentando lo Scala come un pazzo. Questi, che da anni e anni non lo aveva più riveduto, neanche da lontano, rimase dapprima stupito, a mirarlo. Non lo avrebbe riconosciuto, ridotto in quello stato, se lo avesse incontrato per via. "Il castigo di Dio" pensò; e aggrottò le ciglia, comprendendo subito che, così ridotto, quell'uomo doveva credere d'aver già scontato il delitto e di non dovergli più, perciò, nessuna riparazione. Dima Chiarenza, con gli occhi bassi, si pose una mano dietro le reni per tirarsi su, pian piano, dal seggiolone di cuojo, col volto atteggiato di spasimo; ma Saro Trigona lo costrinse a rimaner seduto e, subito, col suo solito opprimente garbuglio di frasi, cominciò a esporre lo scopo della visita: egli, vendendo la campagna ereditata dal cugino al caro don Mattia lì presente, avrebbe pagato, subito, dodici mila lire, a scomputo del suo debito, al carissimo don Dima, il quale, dal canto suo, doveva obbligarsi di non muovere nessuna azione giudiziaria contro l'eredità Lo Cìcero, aspettando... - Piano, piano, figliuolo, - lo interruppe a questo punto il Chiarenza, riponendosi gli occhiali sul naso. - Già l'ho mossa oggi stesso, protestando le cambiali a firma di vostro cugino, scadute da un pezzo. Le mani avanti! - E il mio denaro? - scattò allora lo Scala. - Il fondo del Lo Cìcero non valeva più di diciotto mila lire; ma ora io ce ne ho spese più di sei mila; dunque, facendolo stimare onestamente, tu non potresti averlo per meno di ventiquattro mila. - Bene - rispose, calmissimo, il Chiarenza. - Siccome il Trigona me ne deve venticinque mila, vuol dire che io, prendendomi il podere, vengo a perdercene mille, oltre gl'interessi. - Dunque... venticinque? - esclamò allora don Mattia, rivolto al Trigona, con gli occhi sbarrati. Questi si agitò su la seggiola, come su un arnese di tortura, balbettando: - Ma... co... come? - Ecco, figlio mio: ve lo faccio vedere, - rispose senza scomporsi il Chiarenza, ponendosi di nuovo la mano dietro le reni e tirandosi su con pena. - Ci sono i registri. Parlano chiaro. - Lascia stare i registri! - gridò lo Scala, facendosi avanti. - Qua ora si tratta de' miei denari: quelli spesi da me nel podere... - E che ne so io? - fece il Chiarenza, stringendosi nelle spalle e chiudendo gli occhi. - Chi ve li ha fatti spendere? Don Mattia Scala ripeté, su le furie, al Chiarenza il suo accordo col Lo Cìcero. - Male, - soggiunse, richiudendo gli occhi, il Chiarenza, per la pena che gli costava la calma che voleva dimostrare; ma quasi non tirava più fiato. - Male. Vedo che voi, al solito, non sapete trattare gli affari. - E me lo rinfacci tu? - gridò lo Scala, - tu! - Non rinfaccio nulla; ma, santo Dio, avreste dovuto almeno sapere, prima di spendere codesti denari che voi dite, che il Lo Cìcero non poteva più vendere a nessuno il podere, perché aveva firmato a me tante cambiali per un valore che sorpassava quello del podere stesso. - E così, - riprese lo Scala - tu ti approfitterai anche del mio denaro? - Non mi approfitto di nulla, io, - rispose, pronto, il Chiarenza. - Mi pare di avervi dimostrato che, anche secondo la stima che voi fate della terra, io vengo a perderci più di mille lire. Saro Trigona cercò d'interporsi, facendo balenare al Chiarenza le dodici mila lire contanti che don Mattia aveva nel portafogli. - Il denaro è denaro! - E vola! - aggiunse subito il Chiarenza. - Il meglio impiego del denaro oggi è su terre, sappiatelo, caro mio. Le cambiali, armi da guerra, a doppio taglio: la rendita sale e scende; la terra, invece, è là, che non si muove. Don Mattia ne convenne e, cangiando tono e maniera, parlò al Chiarenza del suo lungo amore per quella campagna contigua, soggiungendo che non avrebbe saputo acconciarsi mai a vedersela tolta, dopo tanti stenti durati per essa. Si contentasse, dunque, il Chiarenza, per il momento, del denaro ch'egli aveva con sé; avrebbe avuto il resto, fino all'ultimo centesimo, da lui, non più dal Trigona, tenendo anche ferma la stima di ventiquattro mila lire, come se quelle sei mila lui non ce le avesse spese, e anche fino al saldo delle venticinque mila, se voleva, cioè dell'intero debito del Trigona. - Che posso dirti di più? Dima Chiarenza ascoltò, con gli occhi chiusi, impassibile, il discorso appassionato dello Scala. Poi gli disse, assumendo anche lui un altro tono, più funebre e più grave: - Sentite, don Mattia. Vedo che vi sta molto a cuore quella terra, e volentieri ve la lascerei, per farvi piacere, se non mi trovassi in queste condizioni di salute. Vedete come sto? I medici mi hanno consigliato riposo e aria di campagna... - Ah! - esclamò lo Scala fremente. - Te ne verresti là, dunque, accanto a me? - Per altro, - riprese il Chiarenza - voi ora non mi dareste neanche la metà di quanto io debbo avere. Chi sa dunque fino a quando dovrei aspettare per esser pagato; mentre ora, con un lieve sacrificio, prendendomi quella terra, posso riavere subito il mio e provvedere alla mia salute. Voglio lasciar tutto in regola, io, ai miei eredi. - Non dir così! - proruppe lo Scala, indignato e furente. - Tu pensi agli eredi? Non hai figli, tu! Pensi ai nipoti? Giusto ora? Non ci hai mai pensato. Di' franco: Voglio nuocerti, come t'ho sempre nociuto! Ah non t'è bastato d'avermi distrutta la casa, d'avermi quasi uccisa la moglie e messo in fuga per disperazione l'unico figlio, non t'è bastato d'avermi ridotto là, misero, in ricompensa del bene ricevuto; anche la terra ora vuoi levarmi, la terra dove io ho buttato il sangue mio? Ma perché, perché così feroce contro di me? Che t'ho fatto io? Non ho nemmeno fiatato dopo il tuo tradimento da Giuda: avevo da pensare alla moglie che mi moriva per causa tua, al figlio scomparso per causa tua: prove, prove materiali del furto non ne avevo, per mandarti in galera; e dunque, zitto; me ne sono andato là, in quei tre palmi di terra; mentre qua tutto il paese, a una voce, t'accusava, ti gridava: Ladro! Giuda! Non io, non io! Ma Dio c'è, sai? e t'ha punito: guarda le tue mani ladre come sono ridotte... Te le nascondi? Sei morto! sei morto! e ti ostini ancora a farmi del male? Oh ma, sai? questa volta, no: tu non ci arrivi! Io t'ho detto i sacrificii che sarei disposto a fare per quella terra. Alle corte, dunque, rispondi: - Vuoi lasciarmela? - No! - gridò, pronto, rabbiosamente, il Chiarenza, torvo, stravolto. - E allora, né io né tu! E lo Scala s'avviò per uscire. - Che farete? - domandò il Chiarenza, rimanendo seduto e aprendo le labbra a un ghigno squallido. Lo Scala si voltò, alzò la mano a un violento gesto di minaccia e rispose, guardandolo fieramente negli occhi: - Ti brucio!