- Ebbene? - domandò di nuovo Gabriele Orsani al vecchio commesso, appena uscito il Vannetti. - Quella... quella costruzione... giusto adesso, - rispose, quasi balbettando, il Bertone. Gabriele s'adirò. - Quante volte me l'hai detto? Che volevi che facessi, d'altra parte? Rescindere il contratto, è vero? Ma se per tutti i creditori quella zolfara rappresenta ancora la speranza della mia solvibilità... Lo so! lo so! Sono state più di centotrenta mila lire buttate lì, in questo momento, senza frutto... Lo so meglio di te!... Non mi far gridare. Il Bertone si passò più volte le mani su gli occhi stanchi; poi, dandosi buffetti su la manica, dove non c'era neppur l'ombra della polvere, disse piano, come a se stesso: - Ci fosse modo, almeno, d'aver danaro per muovere ora tutto quel macchinario, che... che non è neanche interamente pagato. Ma abbiamo anche le scadenze delle cambiali alla Banca... Gabriele Orsani, che s'era messo a passeggiare per lo scrittojo, con le mani in tasca, accigliato, s'arrestò: - Quanto? - Eh... - sospirò il Bertone, - Eh... - rifece Gabriele; poi, scattando: - Oh, insomma! Dimmi tutto. Parla franco: è finita? capitombolo? Sia lodata e ringraziata la buona e santa memoria di mio padre! Volle mettermi qua, per forza: io ho fatto quello che dovevo fare: tabula rasa: non se ne parli più! - Ma no, non si disperi, ora... - disse il Bertone, commosso. - Certo lo stato delle cose... Mi lasci dire! Gabriele Orsani posò le mani su le spalle del vecchio commesso: - Ma che vuoi dire, vecchio mio, che vuoi dire? Tremi tutto. Non così, ora; prima, prima, con l'autorità che ti veniva da codesti capelli bianchi, dovevi opporti a me, ai miei disegni, consigliarmi allora, tu che mi sapevi inetto agli affari. Vorresti illudermi, ora, così? Mi fai pietà! - Che potevo io?... - fece il Bertone, con le lagrime agli occhi. - Nulla! - esclamò l'Orsani. - E neanche io. Ho bisogno di pigliarmela con qualcuno, non te ne curare. Ma, possibile? io, io, qua, messo a gli affari? Se non so vedere ancora quali siano stati, in fondo, i miei sbagli... Lascia quest'ultimo della costruzione del piano inclinato, a cui mi son veduto costretto con l'acqua alla gola... Quali sono stati i miei sbagli? Il Bertone si strinse nelle spalle, chiuse gli occhi e aprì le mani, come per dire: Che giova adesso? - Piuttosto, i rimedii... - suggerì con voce opaca, di pianto. Gabriele Orsani scoppiò di nuovo a ridere. - Il rimedio lo so! Riprendere il mio vecchio violino, quello che mio padre mi tolse dalle mani per dannarmi qua, a questo bel divertimento, e andarmene come un cieco, di porta in porta, a far le sonatine per dare un tozzo di pane ai miei figliuoli. Che te ne pare? - Mi lasci dire, - ripeté il Bertone, socchiudendo gli occhi. - Tutto sommato, se possiamo superare queste prossime scadenze, restringendo, naturalmente, tutte, tutte le spese (anche quelle... mi scusi!... su, di casa), credo che... almeno per quattro o cinque mesi potremo far fronte agli impegni. Nel frattempo... Gabriele Orsani scrollò il capo, sorrise; poi, traendo un lungo sospiro, disse: - Fra Tempo è un monaco, vecchio mio, che vuol crearmi illusioni! Ma il Bertone insistette nelle sue previsioni e uscì dallo scrittojo per finir di stendere l'intero quadro dei conti. - Glielo farò vedere. Mi permetta un momento. Gabriele andò a buttarsi di nuovo su la sedia a sdrajo presso la finestra e, con le mani intrecciate dietro la nuca, si mise a pensare. Nessuno ancora sospettava di nulla; ma per lui, ormai, nessun dubbio: qualche mese ancora di disperati espedienti, e poi il crollo, la rovina. Da circa venti giorni, non si staccava più dallo scrittojo. Come se lì, dal palchetto della scrivania, dai grossi libri di cassa, aspettasse al varco qualche suggerimento. La violenta, inutile tensione del cervello a mano a mano però, contro ogni sforzo, gli s'allentava, la volontà gli s'istupidiva; ed egli se ne accorgeva sol quando, alla fine, si ritrovava attonito o assorto in pensieri alieni, lontani dall'assiduo tormento. Tornava allora a rimpiangere, con crescente esasperazione, la sua cieca, supina obbedienza alla volontà del padre, che lo aveva tolto allo studio prediletto delle scienze matematiche, alla passione per la musica, e gettato lì in quel torbido mare insidioso dei negozii commerciali. Dopo tanti anni, risentiva ancor vivo lo strazio che aveva provato nel lasciar Roma. Se n'era venuto in Sicilia con la laurea di dottore in scienze fisiche e matematiche, con un violino e un usignuolo. Beata incoscienza! Aveva sperato di potere attendere ancora alla scienza prediletta, al prediletto strumento, nei ritagli di tempo che i complicati negozii del padre gli avrebbero lasciato liberi. Beata incoscienza! Una volta sola, circa tre mesi dopo il suo arrivo, aveva cavato dalla custodia il violino, ma per chiudervi dentro, come in una degna tomba, l'usignoletto morto e imbalsamato. E ancora domandava a se stesso come mai il padre, tanto esperto nelle sue faccende, non si fosse accorto dell'assoluta inettitudine del figliuolo. Gli aveva forse fatto velo la passione ch'egli aveva del commercio, il desiderio che l'antica ditta Orsani non venisse a cessare, e s'era forse lusingato che, con la pratica degli affari, con l'allettamento dei grossi guadagni, a poco a poco il figlio sarebbe riuscito ad adattarsi e a prender gusto a quel genere di vita. Ma perché lagnarsi del padre, se egli si era piegato ai voleri di lui senza opporre la minima resistenza, senza arrischiar neppure la più timida osservazione, come a un patto fin dalla nascita stabilito e concluso e ormai non più discutibile? se egli stesso, proprio per sottrarsi alle tentazioni che potevano venirgli dall'ideale di vita ben diverso, fin allora vagheggiato, s'era indotto a prender moglie, a sposar colei che gli era stata destinata da gran tempo: la cugina orfana, Flavia? Come tutte le donne di quell'odiato, in cui gli uomini, nella briga, nella costernazione assidua degli affari rischiosi, non trovavan mai tempo da dedicare all'amore, Flavia, che avrebbe potuto essere per lui l'unica rosa lì tra le spine, s'era invece acconciata subito, senza rammarico, come d'intesa, alla parte modesta di badare alla casa, perché nulla mancasse al marito dei comodi materiali, quando stanco, spossato, ritornava dalle zolfare o dal banco o dai depositi di zolfo lungo la spiaggia, dove, sotto il sole cocente, egli aveva atteso tutto il giorno all'esportazione del minerale. Morto il padre quasi repentinamente, era rimasto a capo dell'azienda, nella quale ancora non sapeva veder chiaro. Solo, senza guida, aveva sperato per un momento di poter liquidare tutto e ritirarsi dal commercio. Ma sì! Quasi tutto il capitale era impegnato nella lavorazione delle zolfare. E s'era allora rassegnato ad andare innanzi per quella via, togliendo a guida quel buon uomo del Bertone, vecchio scritturale del banco, a cui il padre aveva sempre accordato la massima fiducia. Che smarrimento sotto il peso della responsabilità piombatagli addosso d'improvviso, resa anche più grave dal rimorso d'aver messo al mondo tre figliuoli, minacciati ora dalla sua inettitudine nel benessere, nella vita! Ah egli, fino allora, non ci aveva pensato: bestia bendata, alla stanga d'una macina. Era stato sempre doglioso il suo amore per la moglie, pe' figliuoli, testimonii viventi della sua rinunzia a un'altra vita; ma ora gli attossicava il cuore d'amara compassione. Non poteva più sentir piangere i bambini o che si lamentassero minimamente; diceva subito a se stesso: - "Ecco, per causa mia!" - e tanta amarezza gli restava chiusa in petto, senza sfogo. Flavia non s'era mai curata nemmeno di cercar la via per entrargli nel cuore; ma forse, nel vederlo mesto, assorto e taciturno, non aveva mai neppur supposto ch'egli chiudesse in sé qualche pensiero estraneo a gli affari. Anch'ella forse si rammaricava in cuor suo dell'abbandono in cui egli la lasciava; ma non sapeva muovergliene rimprovero, supponendo che vi fosse costretto dalle intricate faccende, dalle cure tormentose della sua azienda. E certe sere vedeva la moglie appoggiata alla ringhiera dell'ampio terrazzo della casa, alle cui mura veniva quasi a battere il mare. Da quel terrazzo che pareva il cassero d'una nave, ella guardava assorta nella notte sfavillante di stelle, piena del cupo eterno lamento di quell'infinita distesa d'acque, innanzi a cui gli uomini avevano con fiducia animosa costruito le lor piccole case, ponendo la loro vita quasi alla mercé d'altre lontane genti. Veniva di tanto in tanto dal porto il fischio roco, profondo, malinconico di qualche vapore che s'apparecchiava a salpare. Che pensava in quell'atteggiamento? Forse anche a lei il mare, col lamento delle acque irrequiete, confidava oscuri presagi. Egli non la richiamava: sapeva, sapeva bene che ella non poteva entrare nel mondo di lui, giacché entrambi a forza erano stati spinti a lasciar la propria via. E lì, nel terrazzo, sentiva riempirsi gli occhi di lagrime silenziose. Così, sempre, fino alla morte, senza nessun mutamento? Nell'intensa commozione di quelle tetre sere, l'immobilità della condizione della propria esistenza gli riusciva intollerabile, gli suggeriva pensieri subiti, strani, quasi lampi di follia. Come mai un uomo, sapendo bene che si vive una volta sola, poteva acconciarsi a seguire per tutta la vita una via odiosa? E pensava a tanti altri infelici, costretti dalla sorte a mestieri più aspri e più ingrati. Talvolta, un noto pianto, il pianto di qualcuno dei figliuoli lo richiamava d'improvviso a sé. Anche Flavia si scoteva dal suo fantasticare; ma egli si affrettava a dire: - Vado io! - Toglieva dal lettuccio il bambino e si metteva a passeggiare per la camera, cullandolo tra le braccia, per riaddormentarlo e quasi per addormentare insieme la sua pena. A poco a poco, col sonno della creaturina, la notte diveniva più tranquilla anche per lui; e, rimesso sul lettuccio il bambino, si fermava un tratto a guardare attraverso i vetri della finestra, nel cielo, la stella che brillava di più... Erano passati così nove anni. Sul principio di quest'anno, proprio quando la posizione finanziaria cominciava a infoscarsi, Flavia s'era messa a eccedere un po' troppo in certe spese di lusso; aveva voluto anche per sé una carrozza; ed egli non aveva saputo opporsi. Ora il Bertone gli consigliava di limitar tutte le spese e anche, anzi specialmente, quelle di casa. Certo il dottor Sarti, suo intimo amico fin dall'infanzia, aveva consigliato a Flavia di cangiar vita, di darsi un po' di svago, per vincere la depressione nervosa che tanti anni di chiusa, monotona esistenza le avevano cagionato. A questa riflessione, Gabriele si scosse, si levò dalla sedia a sdrajo e si mise a passeggiare per lo scrittojo, pensando ora all'amico Lucio Sarti, con un sentimento d'invidia e con dispetto. Erano stati insieme a Roma, studenti. Tanto l'uno che l'altro, allora, non potevano stare un sol giorno senza vedersi; e, fino a poco tempo addietro, quel legame antico di fraterna amicizia non si era affatto rallentato. Egli si vietava assolutamente di fondar la ragione di tal cambiamento su una impressione avuta durante l'ultima malattia d'uno dei suoi bambini: che il Sarti cioè avesse mostrato esagerate premure per sua moglie: impressione e null'altro, conoscendo a prova la rigidissima onestà dell'amico e della moglie. Era vero e innegabile tuttavia che Flavia s'accordava in tutto e per tutto col modo di pensare del dottore: nelle discussioni, da qualche tempo molto frequenti, ella assentiva sempre col capo alle parole di lui, ella che, di solito, in casa, non parlava mai. Se n'era stizzito. O se ella approvava quelle idee, perché non gliele aveva manifestate prima? perché non s'era messa a discutere con lui intorno all'educazione dei figliuoli, per esempio, se approvava i rigidi criterii del dottore, anziché i suoi? Ed era arrivato finanche ad accusar la moglie di poco affetto pe' figli. Ma doveva pur dire così, se ella, stimando in coscienza che egli educasse male i figliuoli, aveva sempre taciuto, aspettando che un altro ne movesse il discorso. Il Sarti, del resto, non avrebbe dovuto immischiarsene. Da un pezzo in qua, pareva a Gabriele che l'amico dimenticasse troppe cose: dimenticasse per esempio di dover tutto, o quasi tutto, a lui. Chi, se non lui, infatti, lo aveva sollevato dalla miseria in cui le colpe dei genitori lo avevano gettato? Il padre gli era morto in galera, per furti; dalla madre, che lo aveva condotto con sé nella prossima città, era fuggito, non appena con l'uso della ragione aveva potuto intravedere a quali tristi espedienti era ricorsa per vivere. Ebbene, egli lo aveva tolto da un misero caffeuccio in cui s'era ridotto a prestar servizio e gli aveva trovato un posticino nel banco del padre; gli aveva prestato i suoi libri, i suoi appunti di scuola, per farlo studiare; gli aveva insomma aperto la via, schiuso l'avvenire. E ora, ecco: il Sarti s'era fatto uno stato tranquillo e sicuro col suo lavoro, con le sue doti naturali, senza dover rinunziare a nulla: era un uomo; mentre lui... lui, all'orlo di un abisso! Due colpi all'uscio a vetri, che dava nelle stanze riserbate all'abitazione, riscossero Gabriele da queste amare riflessioni. - Avanti, - disse. E Flavia entrò.