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Benedictus PP. XIV Annus qui hunc IntraText CT - Lettura del testo |
1. Ci ricordiamo aver letto che l’Imperatore Carlo Magno, essendosi proposto di ridurre a regole di arte il canto Ecclesiastico, che nelle Chiese della Gallia era allora eseguito in maniera disordinata e rozza, chiedesse al Pontefice Adriano I l’invio da Roma di persone istruite nella musica di chiesa. Questi inviati facilmente introdussero nel Regno delle Gallie il Canto Romano, come ognuno può venire a sapere leggendo la notizia presso Paolo Diacono58. presso Rodolfo de Tongres59.; presso Sant’Antonino.60. Il Monaco d’Angoulême61. racconta inoltre che i cantori giunti da Roma insegnarono nelle Gallie anche l’arte di suonare l’organo musicale, che era stato introdotto nel regno delle Gallie sotto il re Pipino.
2. Essendo costume e regola generale che la città di Roma debba precedere, con l’esempio e l’insegnamento, tutte le altre Città, in ciò che concerne i Riti Sacri e le altre cose Ecclesiastiche: anche la storia lo conferma, così come lo conferma quanto Noi ora abbiamo narrato di Carlo Magno, che volendo introdurre il canto Ecclesiastico nel suo Regno, lo fece venire da Roma come dalla sua propria sede.
3. Questo fatto Ci spinge pressantemente e Ci stimola a fare sparire del tutto e tutti gli abusi che si fossero introdotti nel canto Ecclesiastico, e che Noi sopra abbiamo condannati; a farli sparire da ogni Chiesa, se fosse possibile, ma in modo speciale dalle Chiese della Città di Roma.
4. E come Noi non lasciamo di dare gli ordini necessari ed opportuni al Nostro Cardinale Vicario in Roma, cosi lei, Venerabile Fratello, non lasci di pubblicare, se è necessario, editti e leggi, che siano in armonia con questa Nostra Lettera circolare, e che regolino il canto Ecclesiastico in base alle disposizioni prescritte e stabilite nella presente Nostra Lettera, affinché si dia finalmente inizio alla riforma della musica ecclesiastica.
5. Questa riforma fu già ardentemente desiderata e sospirata da moltissimi, tanto che, già cento anni fa Giovanni Battista Doni, patrizio fiorentino, scriveva in un suo trattato62.: "Le cose stanno ora a questo punto, che non si trova nessuno che stabilisca una legge severa che proibisca questo canto quasi effeminato e molle, che si è introdotto ovunque; nessuno che veda la necessità di imporre una disciplina a queste melodie affettate, prolisse e spesso aride; nessuno infine che non sia convinto che i giorni di festa solenni, e gli edifici sacri perderebbero celebrità e non sarebbero più frequentati se non rimbombassero per canti molli e spesso poco decorosi, e per la gran confusione di voci e di suoni in gara tra di loro".