Più volte abbiamo espresso il desiderio di
vedere finalmente composto il dissidio; ed anche recentemente, nell’Allocuzione
Concistoriale del 23 Maggio decorso abbiamo attestato l’animo Nostro propenso
ad estendere l’opera di pacificazione, come alle altre nazioni, così in modo
speciale all’Italia per tanti titoli a Noi cara e strettamente congiunta. Qui
però per giungere a stabilire la concordia non basta, come altrove, provvedere
a qualche interesse religioso in particolare, modificare o abrogare leggi
ostili, scongiurare disposizioni contrarie che si minaccino; ma si richiede
inoltre e principalmente, che sia regolata come conviene la condizione del Capo
supremo della Chiesa, da molti anni per violenze ed ingiurie addivenuta indegna
di lui, ed incompatibile colla libertà dell’Apostolico officio. Per questo
nella citata Allocuzione avemmo cura di mettere a base di questa pacificazione
la giustizia e la dignità della Sede Apostolica, e di reclamare per Noi uno
stato di cose, nel quale il romano Pontefice non debba essere soggetto a
nessuno, ed abbia a godere di una piena e non illusoria libertà. Non v’era
luogo a fraintendere le Nostre parole e molto meno a snaturarle, torcendole ad
un significato del tutto contrario al Nostro pensiero. Da quelle usciva
evidente il senso inteso da Noi, essere cioè condizione indispensabile alla
pacificazione in Italia rendere al romano Pontefice una vera sovranità. Giacché
nello stato presente di cose è chiaro che Noi siamo più che in potere Nostro in
potere di altri, dal cui volere dipende di variare, quando e come piaccia,
secondo il mutar degli uomini e delle circostanze, le condizioni stesse della
Nostra esistenza. Verius in aliena potestate sumus, quam Nostra, come più volte
abbiamo ripetuto. E perciò sempre, nel corso del Nostro Pontificato, secondo
che era debito Nostro, abbiamo rivendicato pel romano Pontefice un’effettiva
sovranità, non per ambizione, né a scopo di terrena grandezza, ma come vera ed
efficace tutela della sua indipendenza e libertà.
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