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Pius PP. VI
Quod aliquantum

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Capp. XI-XV

11. A tal fine Noi ora passeremo ad esaminare sotto altro aspetto il nome di Libertà, e a riscontrare la differenza che passa fra quelli che sono sempre stati fuori dal grembo della Chiesa, quali gli Infedeli e gli Ebrei, e quelli che col sacramento del Battesimo da loro ricevuto si sono alla Chiesa medesima di per sé assoggettati. I primi non devono affatto costringersi a professare l’ubbidienza cattolica; ma al contrario devono essere tenuti i secondi. Una tal differenza con saldissime ragioni, come è suo costume, espone ed illustra San Tommaso d’Aquino, e molti secoli prima ciò fece Tertulliano nel libro intitolato Scorpiaco contro gli Gnostici; e pochi anni fa lo fece Pio VI nella sua opera sulla Beatificazione dei Servi di Dio e canonizzazione dei Beati. E affinché in questa materia vieppiù manifesta si scopra la ragione, sono da vedere le due famosissime lettere di Sant’Agostino, una scritta a Vincenzo Cartaginese, l’altra al conte Bonifazio, delle quali lettere sono state fatte parecchie edizioni; esse servono quale gagliarda confutazione contro gli eretici, non solo antichi ma anche moderni. Attraverso tali cose rimane chiarissimo e manifesto che l’uguaglianza e la libertà vantate da codesta Assemblea mirano poi infine, come abbiamo già provato, a rovesciare la Religione Cattolica, alla quale perciò l’Assemblea ha rifiutato di dare il titolo di Dominante, in un Regno nel quale essa ha sempre dominato.

12. Inoltrandoci Noi adesso a dimostrare gli altri errori dell’Assemblea Nazionale, Ci si presenta subito l’abolizione del Primato Pontificio e della sua Giurisdizione, dato che il decreto così si esprime: "Il nuovo Vescovo non potrà dirigersi al Papa per ottenerne alcuna conferma; ma gli scriverà come a Capo visibile della Chiesa universale in testimonianza dell’unità della fede e della comunione che deve avere con lui".

13. Assolutamente nuova è la formula del giuramento che si prescrive, poiché in essa è taciuto il nome del Romano Pontefice; anzi, siccome l’eletto è tenuto per giuramento a osservare i decreti nazionali, i quali vietano che si prenda dal Pontefice la conferma della elezione, perciò appunto rimane affatto esclusa ogni Potestà del Pontefice medesimo, e in questa maniera si tagliano fuori del fonte i rivi, si tagliano i rami dall’albero, e il Popolo dal Primo Sacerdote. Parlando con voi, Ci sia permesso, per ricordare le ingiurie recate alla Nostra dignità e alla Nostra autorità, appropriarci delle stesse parole con cui San Gregorio il Grande, scrivendo all’augusta Costantina, si lamentò del vescovo Giovanni che, presuntuoso e amante di novità, pretendeva arrogantemente di farsi chiamare Vescovo universale: la pregò di non aderire a tali ambiziose pretese di lui: "Non sia mai che in questa causa la vostra pietà faccia poco conto di me, perché sebbene i peccati di Gregorio [diremo ora di Pio] siano così grandi, che per essi starebbe bene simile pena, tuttavia l’Apostolo Pietro non ha alcun peccato per il quale egli meriti ai tempi vostri di soffrire tali cose; onde, per Iddio Onnipotente, vi prego e supplico che come i Maggiori e Predecessori Vostri si procurarono la protezione e il favore di San Pietro Apostolo, così anche Voi procuriate di cercar questa stessa e di conservarvela, cosicché, a causa dei peccati di Noi, che siamo indegni suoi servi, non venga in conto alcuno diminuito presso di voi l’onore di lui, il quale può aiutarvi in tutto presentemente, e può in appresso rimettervi i vostri peccati".

14. Ciò che richiedette San Gregorio dall’autorità di Costantina al fine di sostenere il decoro della Pontificia dignità, Noi similmente domandiamo da Voi, perché in codesto vastissimo Regno non vengano aboliti l’onore e i diritti del Primato, ma si abbia riguardo ai meriti di Pietro, di cui Noi, sebbene immeritevoli, pur siamo eredi: egli, nella umiltà della Nostra Persona, deve essere onorato. Se non potrete mandare ad effetto ciò, perché impediti da forza straniera, dovete almeno supplire con il religioso zelo e con la vostra costanza, coraggiosamente astenendovi dal giuramento che vi si ingiunge. Per certo la denominazione pretesa da Giovanni toglieva a Gregorio assai meno di quel che toglie ai Nostri diritti il decreto nazionale; poiché, come mai può dirsi che si mantenga e si conservi la comunione col Capo visibile della Chiesa soltanto comunicandogli l’elezione e nel tempo stesso negandogli attraverso il giuramento l’Autorità del Primato? Eppure a lui, come a capo, debbono le sue membra fare solenne promessa di ubbidienza canonica al fine di conservare l’unità della Chiesa e di evitare gli scismi in questo mistico corpo formato da Gesù Cristo. A tal proposito, per ciò che riguarda le Chiese di Francia, si può vedere presso il Martens, nella sua opera sugli Antichi Riti della Chiesa, quale sia stata in passato la formula del giuramento: ben chiaro risulta che fin dai tempi antichi i Vescovi della Francia nella loro Ordinazione aggiungevano alla professione della fede l’espressa clausola della loro ubbidienza verso il Romano Pontefice. Noi per la verità non ignoriamo (né vogliamo qui dissimularlo) ciò che i difensori della Costituzione Nazionale producono in contrario da una lettera di Sant’Ormisda ad Epifanio, Patriarca di Costantinopoli, o piuttosto a dir vero come abusino di tale lettera, in quanto da essa risulta essere stato costume che i Vescovi eletti mandassero deputati con loro lettera, e con la professione della Fede, al Romano Pontefice, da cui chiedevano di venire ammessi in unione e comunione con la Sede Apostolica, e in questa guisa riportassero l’approvazione della elezione seguita nella loro persona. Avendo mancato di ciò fare Epifanio, il Papa Ormisda scrivendogli così si espresse: "Noi ci siamo molto meravigliati come Voi non abbiate osservato il solito ed antico costume, quando ora che è ristabilita per divina mercé la concordia fra le Chiese, ciò appunto da Voi richiedeva il dovere, in prova della fraterna pace, massime che non pretendevasi questo per ambizione personale, ma per osservanza delle Regole. Sarebbe stato bene, o Fratello carissimo, che sul principio stesso del vostro Vescovato Voi aveste inviato deputati alla Sede Apostolica allo scopo di rendervi certo di qual sia l’affetto Nostro per Voi, e di osservare esattamente la forma dell’antica consuetudine". Vero è che i nemici del Primato da quell’espressione "sarebbe stato bene" deducono essere stata simile deputazione un semplice atto di ufficiosità, e per così dire di esuberanza; ma se bene si osservi peraltro tutto il contesto della lettera, cioè le parole "ristabilita la concordia fra le Chiese... ciò richiedeva il dovere... pretendevasi per osservanza delle Regole... osservare esattamente la forma dell’antica consuetudine", chi può mai sostenere che per essersi il Papa servito di questa moderata espressione "sarebbe stato bene" non fosse un dovere dell’Eletto il ricorrere al Papa per ottenere l’approvazione?

15. Ma rimane del tutto sconfitta ogni interpretazione contraria da un’altra lettera pontificia, che San Leone IX scrisse a Pietro, Vescovo di Antiochia. Avendo questi comunicato al Santo Pontefice la sua elezione al Vescovato, ne ebbe per risposta: "Molto necessaria è stata la premura che vi siete preso di significarci l’avvenuta elezione... e non avete differito ad eseguire ciò che grandemente si doveva per parte Vostra, e della Chiesa a cui temporalmente presiedete. La mia bassezza poi, che al sublime Trono Apostolico è stata esaltata, perché approvi quel che è da approvare, e altresì disapprovi ciò che è da disapprovare, ben volentieri approva, e loda, e conferma la promozione Vescovile di Vostra Santissima Fraternità, e immediatamente prega il comune Signore, che quale Voi siete di presente chiamato dagli uomini, tale anche siate dinanzi agli occhi di lui". Questa lettera che non è il parere di un dottore privato, ma esprime il giudizio di un Pontefice insigne per santità e per dottrina, non lascia luogo ad alcun dubbio sul senso in cui Noi abbiamo spiegato la lettera di Sant’Ormisda, così che meritatamente essa deve considerarsi uno dei più illustri monumenti a comprovare l’obbligo che hanno i Vescovi di chiedere, e di riportare dal Romano Pontefice la conferma: obbligo che viene corroborato dall’autorità del Concilio di Trento, e che Noi Ci prendemmo la cura di sostenere e difendere nella Nostra risposta sopra le Nunziature; molti altri tra Voi medesimi, con egregie e dotte opere, l’hanno messo in chiarissima luce. Ma qui dai Nostri avversari, cui preme sostenere i decreti di codesta Assemblea, Noi Ci sentiamo dire che questi decreti appartengono alla Disciplina, la quale, come frequenti volte è stata cambiata in relazione alla varietà dei tempi, così può mutarsi anche presentemente. Peraltro, fra i decreti dell’Assemblea non vi sono soltanto quelli che riguardano la Disciplina, ma ve ne sono anche altri, e non pochi, che tendono al rovesciamento del puro e immutabile Dogma, come abbiamo fin qui dimostrato. Nondimeno, anche trattando della Disciplina medesima, chi è mai fra i Cattolici che asserisca potersi dai laici cambiare la Disciplina ecclesiastica? Anche lo stesso Pietro de Marca confessa che "intorno ai Riti, Cerimonie, Sacramenti, Censura del Clero, Funzione, Condizioni e Disciplina, è costume frequentissimo dei Concilii il farne Canoni, e dei Pontefici Romani altresì farne Decreti come a materia loro soggetta, né si può produrre alcuna Costituzione di Principi promulgata su tale proposito per mero comando della Potestà secolare. Vediamo con certezza che in questa parte le Leggi pubbliche sono venute dopo, ma non hanno mai preceduto".




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