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Pius PP. VI Quod aliquantum IntraText CT - Lettura del testo |
16. Di più, nell’anno 1560, avendo la Facoltà di Parigi chiamato ad esame le proposte fatte all’Assemblea, ossia agli Stati radunati di Angiò, da Francesco Grimauldet, fra le molte proposizioni dalla stessa Facoltà riprovate si trova la seguente al n. 6: "Il secondo punto della Religione riguarda la Polizia e la Disciplina Ecclesiastica, sulla quale i Re e i Principi Cristiani hanno potestà di dirigerla, di ordinarla e di riformarla, se è corrotta". Questa proposizione è falsa, scismatica, lesiva della potestà ecclesiastica, ed eretica, e le prove sono inconcludenti e disparate. Certissimo è inoltre che la disciplina non può variarsi temerariamente a capriccio, giacché i primi due luminari della Chiesa Cattolica, Sant’Agostino e San Tommaso d’Aquino, apertamente insegnano che le materie riguardanti la disciplina non si debbono variare, se non quando lo richieda la necessità o una grande utilità; essendo che il cambiar consuetudine, anche dove ciò ridonda in giovamento, disturba tuttavia per la stessa novità, e non deve farsi variazione (come il medesimo San Tommaso soggiunge) "se non nel caso che quanto si deroga per una parte alla comune salvezza, venga compensato altrettanto per altra parte".È poi così impensabile che i Romani Pontefici abbiano mai corrotto la disciplina, ché anzi con l’autorità da Dio loro conferita ad edificazione della Chiesa hanno sempre cercato di migliorarla e di addolcirla; tutto all’opposto di ciò che con Nostro dolore hanno fatto i membri di codesta Assemblea, come facilmente si può toccare con mano confrontando ciascun articolo di quei decreti con la disciplina della Chiesa.
17. Ma prima che cominciamo a parlare di questi articoli, stimiamo opportuno premettere quanta coerenza abbia spesse volte la disciplina con il dogma, e quanto l’una influisca a conservare la purità dell’altro, come pure quanto poco utili siano state, e di quanto poca durata, le variazioni permesse, sebbene di rado, dai Romani Pontefici per condiscendenza. Di fatto i Sacri Concilii hanno in parecchi casi scomunicato i violatori della disciplina. Nel Concilio Trullano fu stabilita la pena di scomunica a chi mangiasse sangue di bestie soffocate: "Se alcuno da qui avanti ardirà mangiare in qualsiasi maniera del sangue degli animali, sia deposto, se egli è un Chierico, e se Laico, sia separato". In più luoghi il Concilio di Trento sottopone alla scomunica gl’impugnatori della disciplina ecclesiastica; poiché al can. 9, sess. 13 dell’Eucaristia stabilisce la pena della scomunica a chiunque "negherà che tutti e ciascuno dei Cristiani dell’uno e dell’altro sesso, giunti che sono agli anni della discrezione, siano tenuti ogni anno a comunicarsi almeno per la Pasqua, conforme al precetto di Santa Madre Chiesa". Nel can. 7, sess. 22 del Sacrificio della Messa viene sottoposto alla scomunica chiunque dicesse "che le cerimonie, le vesti e i segni esterni, che adopera la Chiesa Cattolica nella celebrazione della Messa, servono piuttosto a provocare l’empietà, che ad eccitare la pietà".Nel can. 9, sess. medesima, viene parimenti scomunicato chiunque asserisse "che il Rito della Chiesa Romana di proferire con voce sommessa parte del Canone e le parole della Consacrazione è da condannarsi, o che la Messa si deve celebrare in lingua volgare". Nel can. 4, sess. 24 del Sacramento del Matrimonio viene punito con la scomunica chi dicesse "che la Chiesa non poteva stabilire impedimenti che dirimessero il matrimonio, o che nello stabilirli essa ha errato". Nel can. 9, alla medesima sess. e tit. incorre parimenti nella scomunica chi dicesse "che i Chierici costituiti nei Sacri Ordini, o i Regolari che hanno fatto solenne professione di castità, possono contrarre matrimonio, e che da essi contratto è valido, nonostante la Legge ecclesiastica, o il voto, e che il sentire in contrario non è altro che un condannare il matrimonio, e che questo possono contrarlo tutti quelli che non si sentono di avere il dono della castità, quantunque di essa abbiano fatto voto". Nel can. 11, alla medesima sess. e tit., è punito altresì con la scomunica chi dicesse "che la proibizione della solennità delle nozze in determinati tempi dell’anno è una superstizione tirannica derivata dalla superstizione dei Gentili, o condannasse le benedizioni e le altre cerimonie, di cui si serve la Chiesa nelle nozze".Nel can. 12 alla medesima sess. e tit. s’impone la pena della scomunica a chiunque dica "che le cause matrimoniali non appartengono ai Giudici Ecclesiastici". Alessandro VII, poi, il 7 gennaio e il 7 febbraio 1661 condannò sotto pena di scomunica latae sententiae la traduzione del Messale Romano in lingua francese, come una novità che deforma il perpetuo decoro della Chiesa, e che facilmente produrrebbe disubbidienza, temerità, audacia, sedizione, scisma e molti altri mali. Dalla pena di scomunica imposta a coloro che avversavano diversi punti della Disciplina, Noi comprendiamo manifestamente che questa è stata considerata dalla Chiesa come connessa con il Dogma, e che non deve in qualunque tempo, né da chiunque, variarsi, ma solo dall’Autorità ecclesiastica, quando questa sia certa che o è divenuto inutile quel che fino allora si è osservato, oppure vi è necessità urgente di conseguire un bene maggiore.
18. Ci resta ora da vedere di quanto poca utilità e durata siano state le variazioni che pur si sperava dovessero essere giovevoli. Ciò facilmente da voi si rileverà, se richiamerete alla vostra memoria l’esempio di quel che avvenne intorno all’uso del Calice, che Pio IV, dopo le vive istanze dell’imperatore Ferdinando e di Alberto duca di Baviera, fu infine indotto ad accordare, cioè che alcuni Vescovi, i quali avevano Diocesi nella Germania, potessero sotto determinate condizioni permetterlo. Ma siccome da ciò era derivato più male che bene alla Chiesa, il Santo Pontefice Pio V stimò necessario all’inizio stesso del suo Pontificato di revocare tale concessione, come ben presto egli fece con due Brevi Apostolici, il primo dell’8 giugno 1566 diretto a Giovanni, Patriarca d’Aquileia, il secondo il giorno dopo a Carlo Arciduca d’Austria. Da lì a qualche tempo Urbano, Vescovo di Passavia, presentò suppliche per ottenere lo stesso indulto; ma San Pio con lettera del 26 maggio 1568 gli rispose esortandolo grandemente "a mantenere l’antichissimo rito della Chiesa Cattolica piuttosto che quello di cui si valgono gli eretici... E in questo atteggiamento Voi dovete [egli scrive] rimanere così fermo e costante, da non lasciarvi rimuovere per timore di danno o pericolo alcuno, quand’anche dovessero perdersi i beni temporali, quand’anche dovesse incontrarsi il martirio. Voi siete tenuto ad apprezzare il valore di tale costanza più di tutte le ricchezze e i beni temporali. Dal martirio poi non deve rifuggire un uomo veramente cristiano e cattolico: anzi, deve desiderarlo e tenerlo in conto di un singolare beneficio di Dio, ed è da reputare veramente felice chiunque sarà stato fatto degno di spargere il sangue per Cristo e per i Santissimi suoi Sacramenti". Quindi meritatamente San Leone il Grande scrivendo ai Vescovi della Campania, del Piceno, della Toscana e di tutte le Province intorno ad alcuni punti di Disciplina, terminò la sua lettera con le seguenti parole: "Vi avvisiamo pertanto, e vi intimiamo che se alcuno dei Fratelli tenterà di contravvenire a queste determinazioni, e ardirà di fare ciò che è vietato, stia certo che sarà rimosso dal suo ministero, e non sarà partecipe della Nostra Comunione chi non volle essere Nostro compagno nella Disciplina".
19. Veniamo ora all’esame dei vari articoli del Decreto di codesta Assemblea Nazionale; qui merita una riflessione assai grave la soppressione di antiche Metropoli, e anche di alcuni Vescovati, e la divisione di alcuni di questi, e la nuova erezione di altri. Su questo Noi non intendiamo qui richiamare ad un esame critico ciò che non senza qualche dubbio vediamo riferito dagli storici intorno all’antica divisione delle Province della Francia rispetto allo Stato Civile. Da tale divisione Noi potremmo dedurre che tanto riguardo al tempo, quanto riguardo al territorio, le Metropoli Ecclesiastiche non sono state le stesse delle Province dello Stato Civile. Ma per il punto di cui ora si tratta, Ci basterà accennare che dalla divisione fatta delle Metropoli rispetto alla Giurisdizione Civile non discendono affatto i confini di territorio per il Ministero Ecclesiastico, come appare manifesto dalla ragione addotta da Sant’Innocenzo I in una sua lettera ad Alessandro Antiocheno: "Quanto a ciò che Ci domandate, se per essere state divise con giudizio imperiale le Province, onde farne due Metropoli, si debba altresì venire alla nomina di due Vescovi Metropolitani, Ci è sembrato che la Chiesa d’Iddio nulla abbia da variare, uniformandosi ai cambiamenti che portano le necessità mondane, né avere quegli onori o soffrire quelle divisioni, che per suoi propri motivi avrà l’Imperatore creduto doversi fare. È dunque conveniente che il numero dei Vescovi Metropolitani sia quale richiede l’antica divisione delle Province". Questa lettera viene illustrata con egregi documenti presi dalla prassi della Chiesa Gallicana da Pietro de Marca: Ci basterà trascrivere queste poche parole: "La Chiesa Gallicana è stata pienamente della stessa opinione del Sinodo Calcedonese e del Decreto d’Innocenzo, ed ha stimato essere cosa indegna che si facciano nuovi Vescovati per comando dei Re, ecc. Onde non è da recedere dal sentimento comune della Chiesa universale per una vile adulazione verso dei Principi, come avvenne a Marcantonio de Dominis, il quale a torto e contro i medesimi Canoni attribuì ai Re l’erezione dei Vescovati; tale opinione è stata fatta propria da alcuni moderni. In simile materia la disposizione e il regolamento dipendono interamente dalla Chiesa, come ho detto". Ma qui si dirà che si ricorre a Noi perché le stabilite divisioni delle Diocesi vengano da Noi approvate. Appunto si deve esaminare con ponderazione se ciò da Noi debba farsi; atteso che pare vi si opponga l’origine infetta, da cui derivano queste odierne divisioni e soppressioni. Si vuole riflettere inoltre che qui non si tratta di mutare l’una o l’altra Diocesi, ma di rovesciare quasi tutte le Diocesi di un vastissimo Regno, e di rimuovere dal loro luogo tante e sì grandi e illustri Chiese, dato che molte di quelle che godevano l’onore Arcivescovile, vengono abbassate al grado Vescovile. Contro tale novità fortemente inveì Innocenzo III, quando, scrivendo al Patriarca di Antiochia, lo riprese aspramente con queste parole: "Con un nuovo ed insolito genere di cambiamento Voi avete rimpicciolito il maggiore, e minorato in certa maniera il grande, presumendo di vescovare un Arcivescovo, anzi, a dir meglio, disarcivescovarlo".
20. Tale novità impressionò a tal punto Ivone di Chartres che, per evitarla, stimò necessario ricorrere a Pasquale II e scrivergli in questi termini: "Lo stato delle Chiese, che ha durato quasi per quattrocento anni, concedete che rimanga fermo e inconcusso, perché con questa occasione non si venga a suscitare nel Regno della Francia quello scisma che è nel Regno della Germania contro la Sede Apostolica". A questo si aggiunge che, prima di venire a tal passo, Noi dobbiamo interrogare i Vescovi, giacché si tratta del loro diritto, onde non abbiamo poi da essere accusati come violatori delle leggi della giustizia contro di essi. Quanto tale cosa sia detestata dal Pontefice Sant’Innocenzo I, lo dimostrano le seguenti sue parole: "Chi infatti potrebbe mai tollerare ciò in cui peccano quegli stessi che dovrebbero più degli altri essere premurosissimi per la tranquillità, per la pace, per la concordia? Per stravagante ed irragionevole motivo adesso si vedono Sacerdoti innocenti cacciati dalle sedi delle loro Chiese. Il primo a soggiacere a così ingiusta espulsione è stato il Nostro Fratello e Consacerdote Giovanni, vostro Vescovo, senza essere stato ascoltato in nessun modo. Contro di lui non si reca, né si ode alcuna accusa di reato. Che perversa risoluzione è mai questa? Come se non vi fosse o non si cercasse alcuna specie di giudizio, in luogo di Sacerdoti tuttora viventi ne vengono sostituiti altri, quasi che coloro i quali cominciano il loro ministero da tale reato possano avere qualche pregio o lo abbiano meritato. I Padri Nostri, peraltro, non hanno mai operato in simile modo, ma al contrario l’hanno vietato, dato che non è mai stata data licenza di ordinare un altro in luogo di chi è ancora vivente. Perciò un’ordinazione irregolare ed illecita non può togliere l’onore di un Sacerdote, mentre non può essere assolutamente ritenuto Vescovo colui che subentra ingiustamente".