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Pius PP. VI
Quod aliquantum

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Capp. XLVI-L

46. Noi potremmo ora proseguire l’esame di altri articoli che sono contenuti in quel Decreto dell’Assemblea, poiché dal principio fino alla fine può quasi dirsi non esservi cosa da cui non ci si debba guardare e che non sia da criticare. Inoltre i concetti di quel Decreto sono tra loro così connessi e collegati che a stento ve n’è qualcuno esente dal sospetto d’errore. Ma mentre già avevamo esposto gli assurdi e gli errori principali che esso contiene, Ci accadde di leggere nei pubblici Fogli, contro ogni aspettativa, che il Vescovo d’Autun aveva prestato il suo giuramento a tenore di quel Decreto. Fummo colpiti da tanto dolore, al punto da essere costretti, per il gravissimo affanno, ad interrompere ciò che vi scriviamo. Non può credersi a qual colmo crescesse l’afflizione Nostra, "in modo che non cessarono gli occhi Nostri di piangere, giorno e notte",al vedere come quel Vescovo si è disgiunto e separato dagli altri colleghi suoi, e finora egli solo fra tutti ha chiamato Iddio in testimonio dei propri errori. E sebbene egli si sia adoperato per difendersi e discolparsi in quel solo articolo che riguarda la diminuzione delle Diocesi, e la traslazione dei Popoli ad altre Diocesi, con la mira di eludere e farvi stare gl’ignoranti, si è avvalso, ma assolutamente fuori di proposito, del paragone d’un intero Popolo il quale, per motivo di pubbliche calamità o d’altra necessità urgente, venga costretto dalla potestà civile a passare da una ad un’altra Diocesi. Ma questi due esempi sono tra loro diversissimi; perché quando un Popolo esce dalla sua Diocesi per passare ad un’altra, il Vescovo di quella a cui passa esercita entro i confini della sua Diocesi la propria ordinaria giurisdizione sopra nuovi abitanti: giurisdizione che non gli viene data dalla potestà civile, ma dal suo proprio diritto, essendo cioè di diritto che tutti coloro che abitano nella Diocesi per ragione di domicilio e di abitazione appartengono a quel Vescovo, nella cui Diocesi stanno. E se accada che il Vescovo di quella Diocesi dalla quale il Popolo passa altrove, rimanga senza sudditi, non sarà mai per questo che un Pastore senza gregge cessi di essere Vescovo, o quella Chiesa perda il titolo di Cattedrale; ma tanto il Vescovo quanto la Chiesa conservano i loro diritti di Vescovato e di Cattedralità, come avviene delle Chiese occupate o dai Turchi o da altri infedeli, le quali spesse volte si conferiscono a Vescovi titolari. È tutto al contrario quando i confini delle Diocesi vengono cambiati in maniera che al completo, o parte di esse, vengono tolte al Vescovo cui appartengono e trasferite sotto un altro. In tal caso, per certo, ove non intervenga la legittima autorità della Chiesa, non può quel Vescovo, a cui si toglie o interamente o in parte la Diocesi, abbandonare il gregge che è stato a lui affidato, e l’altro Vescovo, a cui viene illegittimamente accresciuta la nuova Diocesi, non può mettere le mani nella Diocesi altrui e assumersi il governo delle altrui pecorelle. Infatti la missione canonica e la giurisdizione che ha ciascun Vescovo sono rinchiuse fra determinati confini, né potrà mai l’autorità civile far sì che quelle o si estendano più largamente o si restringano entro più angusti confini.

47. Niente dunque di più insulso si poteva immaginare che il paragone recato tra il passaggio di un Popolo a una Diocesi altrui, e il nuovo cambiamento delle Diocesi e dei loro confini. Nel primo caso il Vescovo esercita quella giurisdizione che egli ha per proprio diritto nella sua Diocesi; all’opposto nel secondo caso il Vescovo estende quella giurisdizione che egli non può avere per conto di nessuno nella Diocesi altrui. Quindi è che nel giuramento prestato dal Vescovo di Autunni Noi non troviamo alcuna cosa con cui egli possa in senso cattolico discolparsi dall’empietà. Tra le condizioni che si richiedono perché sia lecito il giuramento, le principali sono che esso sia vero e giusto. Ma qui, dove può essere la verità, dove la giustizia, mentre dai principi sopra addotti appare chiaro che non vi è alcuna cosa che non sia falsa ed ingiusta? Né potrà il Vescovo di Autun in modo alcuno scusarsi dicendo che egli così operò per sconsideratezza e precipitazione. Non si prestò forse dopo riflessione e con animo deliberato al giuramento egli, che pur si studiava di sostenerlo con false ragioni, che aveva già saputo qual era il sentimento degli altri Vescovi (i quali con dottrina e religioso zelo impugnavano il Decreto dell’Assemblea) e che non poteva non avere davanti agli occhi l’altro giuramento assolutamente contrario da lui prestato nella sua tuttora recente Consacrazione? Pertanto si deve dire fuor d’ogni dubbio che egli si è fatto reo di un volontario e sacrilego spergiuro contro i dogmi della Chiesa e i suoi indiscutibili diritti.

48. E qui riteniamo essere molto a proposito il ricordare ciò che avvenne in Inghilterra al tempo di Enrico II. Egli aveva fatto un Decreto consimile, steso peraltro in più concise e brevi parole, in forza del quale, abolendo la libertà della Chiesa Anglicana, veniva ad arrogare a se stesso i diritti del Primato. Nel proporre il Decreto ai Vescovi comandò che prestassero il giuramento a tenore della formula, cioè sulle antiche, come egli le chiamava, Costituzioni del Regno. Essi non rifiutarono, ma nel giurare aggiunsero questa clausola "Salvo l’Ordine proprio". Questa clausola non piaceva al Re, il quale diceva "che sotto quelle parole "Salvo l’Ordine proprio", stava il veleno, e che esse erano poste con maliziosa frode". Ordinò dunque ai Vescovi che "assolutamente, e senza alcuna aggiunta, promettessero di osservare le Regie Consuetudini". Quantunque fossero rimasti costernati e colpiti da tale risposta, tuttavia erano spinti ad opporvisi dall’Arcivescovo di Canterbury, poi Martire San Tommaso, il quale veniva a ciò confortato dal Sommo Pontefice, ed esortato a stare costante nel suo dovere di Pastore. "Ma siccome di giorno in giorno si facevano maggiori le vessazioni ed i mali, alcuni Vescovi, recatisi presso l’Arcivescovo, lo scongiurarono perché avesse pietà di se stesso e del Clero, per non dovere soggiacere egli al carcere, ed il Clero allo sterminio. L’uomo, d’invitta costanza e ancorato alla pietra di Cristo, per nulla addolcito dalle lusinghe e per nulla scosso dai terrori, mosso finalmente a compassione più del Clero che di se stesso, viene distaccato dal grembo della verità e dal seno della madre". Dopo di lui giurarono gli altri Vescovi. Ma l’Arcivescovo, resosi poi conto dell’errore compiuto, fu preso da così alto dolore, che gemendo e sospirando esclamò:"Come mi pento di ciò che ho fatto! Inorridisco altamente del mio eccesso, e mi reputo indegno di accostarmi da qui avanti nel Ministero di Sacerdote dinanzi a quel Dio, della cui Chiesa ho fatto così vile traffico. Tacerò dunque, sedendo pieno di tristezza, fin tanto che mi visiti il Signore dall’alto, e io sia fatto degno d’essere assolto dallo stesso Dio e dal Sommo Pontefice. Già mi pare di vedere costretta, per i miei peccati, a misera servitù la Chiesa Anglicana, che i miei Predecessori, fra tanti e così gravi pericoli ben noti al mondo, sostennero con tanta prudenza, e a favore della quale combatterono con tanto coraggio in mezzo ai suoi nemici, e trionfarono con tanta gloria. Purtroppo quella che prima di me è stata Signora, sarà ridotta allo stato di ancella per colpa mia. Fossi pur io morto, cosicché occhio d’uomo non mi vedesse".

49. Subito dopo Tommaso scrisse una lettera al Pontefice; gli rivelò la propria piaga e, cercandone la medicina, lo supplicò di assolverlo. Il Pontefice, sapendo che Tommaso aveva prestato giuramento non per propria malvagia volontà, ma per una improvvida compassione, mossosi a giusta pietà, con la pienezza dell’Autorità Apostolica l’assolse. Tommaso ricevette la lettera del Pontefice come se gli fosse venuta dal Cielo, e non cessò di ammonire il Re con dolcezza e con forza, prospettandogli tali cose che avrebbero dovuto meritatamente trattenere il Principe dal continuare a danneggiare la Chiesa. Il Re, avvertito frattanto che Tommaso aveva revocato la promessa fatta, scrisse al Pontefice chiedendogli che gli accordasse due cose: la prima, che le Regie Consuetudini venissero approvate in Roma; la seconda, che la prerogativa della legazione Apostolica venisse trasferita dalla Chiesa di Canterbury a quella di York. La prima domanda fu rigettata dal Pontefice, come si apprende dalle lettere che furono dirette a Tommaso; la seconda fu ammessa, "salvo il decoro dell’Ordine Ecclesiastico"; con lettere apostoliche scritte al Vescovo di York fu comandato a questi di astenersi dal compiere atti di giurisdizione nella Provincia di Canterbury e di non alzare la Croce colà. Successivamente Tommaso fuggì in Francia, e di a Roma, dove, accolto cortesemente dal Pontefice, gli presentò uno scritto in cui si leggevano le Regie Consuetudini espresse in sedici capitoli; queste, esaminate, vennero respinte. Tornato finalmente in Inghilterra, Tommaso se ne andò intrepido al supplizio, e memore del divino comando "Chi vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la sua Croce e mi segua", aprì la porta della Chiesa ai soldati, e caldamente raccomandando se stesso a Dio, alla Beata Vergine e ai Santi tutelari della sua Chiesa, ferito con più colpi nel capo morì in difesa della legge di Dio e della libertà della Chiesa, riportando la palma di un glorioso martirio. Abbiamo ricavato queste notizie dagli Annali della Chiesa Anglicana dell’Arfold.

50. Chi da tutto questo non rileva ben tosto essere fra loro somigliantissimi quanto ha fatto l’Assemblea Nazionale e l’operato di Enrico II? L’Assemblea Nazionale emanò dei Decreti con i quali arrogò a sé l’autorità ecclesiastica; essa obbliga tutti a prestare il giuramento, massime i Vescovi e gli altri Ecclesiastici; viene trasferito in lei medesima quel giuramento che i Vescovi prestano al Romano Pontefice. Sono stati occupati i fondi ecclesiastici, come lo furono da Enrico: di essi, pertanto, San Tommaso chiedeva insistentemente la restituzione. Ad un simile Decreto il Re Cristianissimo è stato costretto ad apporre la propria approvazione. Finalmente venne presentata all’Assemblea Nazionale una dichiarazione con cui i Vescovi, distinguendo i Diritti Civili dagli Ecclesiastici, dichiaravano di riconoscere i primi e di essere pronti ad osservarli, ad esclusione del resto come di cosa che oltrepassa l’autorità e il potere dell’Assemblea, comportandosi come quei valorosi soldati cristiani che militavano sotto Giuliano Apostata e che sono celebrati da Sant’Agostino con queste parole: "Giuliano fu un Imperatore infedele, fu un apostata, fu un iniquo idolatra. I soldati di Cristo servirono a un Imperatore infedele; ma quando si trattava della causa di Cristo, non riconoscevano altro Sovrano se non quello che era in Cielo. Se Giuliano comandava loro di adorare e di incensare gli idoli, anteponevano al suo comando quello di Dio; se poi diceva: schieratevi armati e andate contro quella Nazione, ne ubbidivano ben tosto i cenni; distinguevano cioè il Signore eterno dal Signore temporale". Nondimeno l’Assemblea Nazionale rigettò anche questa dichiarazione, come Enrico II aveva ricusato di ammettere la sopra riferita clausola "salvo l’Ordine proprio". Dal primo capo fino all’ultimo concordano pienamente gl’iniqui tentativi dell’Assemblea Nazionale e del Re Enrico.




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