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Pio XII
Divino afflante Spiritu

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22. Quale poi sia il senso letterale di uno scritto, spesso non è così ovvio nelle parole degli antichi Orientali com'è per esempio negli scrittori dei nostri tempi. Ciò che quegli antichi hanno voluto significare con le loro parole non va determinato soltanto con le leggi della grammatica o della filologia, o arguito dal contesto; l'interprete deve quasi tornare con la mente a quei remoti secoli dell'Oriente e con l'appoggio della storia, dell'archeologia, dell'etnologia e di altre scienze, nettamente discernere quali generi letterari abbiano voluto adoperare gli scrittori di quella remota età. Infatti gli antichi Orientali per esprimere i loro concetti non sempre usarono quelle forme o generi del dire, che usiamo noi oggi; ma piuttosto quelle ch'erano in uso tra le persone dei loro tempi e dei loro paesi. Quali esse siano, l'esegeta non lo può stabilire a priori, ma solo dietro un'accurata ricognizione delle antiche letterature d'Oriente. Su questo punto negli ultimi decenni l'indagine, condotta con maggior cura e diligenza, ha messo in più chiara luce quali fossero in quelle antiche età le forme del dire adoperate sia nelle composizioni poetiche, sia nel dettare le leggi o le norme di vita, sia infine nel raccontare i fatti della storia. L'indagine stessa ha pure luminosamente assodato che il popolo d'Israele fra tutte le antiche nazioni d'Oriente tenne un posto eminente, straordinario, nello scrivere la storia, sia per l'antichità, sia per la fedele narrazione degli avvenimenti, pregi che per verità si possono dedurre dal carisma della divina ispirazione e dal particolare scopo religioso della storia biblica. Tuttavia a nessuno che abbia un giusto concetto dell'ispirazione biblica farà meraviglia che anche negli Scrittori Sacri, come in tutti gli antichi, si trovino certe maniere di esporre e di narrare, certi idiotismi, propri specialmente delle lingue semitiche, certi modi iperbolici od approssimativi, talora anzi paradossali, che servono a meglio stampar nella mente ciò che si vuol dire. Delle maniere di parlare, di cui presso gli antichi, specialmente Orientali, servivasi l'umano linguaggio per esprimere il pensiero della mente, nessuna va esclusa dai Libri Sacri, a condizione però che il genere di parlare adottato non ripugni affatto alla santità di Dio né alla verità delle cose. L'aveva già, col suo solito acume, osservato l'Angelico Dottore con quelle parole: "Nella Scrittura le cose divine ci vengono presentate nella maniera che sogliono usare gli uomini" (Comment. in Ep. ad Hebr. cap. I, lectio 4). In effetto, come il Verbo sostanziale di Dio si è fatto simile agli uomini in tutto, "eccettuato il peccato" (Hebr. IV, 15) così anche le parole di Dio, espresse con lingua umana, si sono fatte somiglianti all'umano linguaggio in tutto, eccettuato l'errore. In questo consiste quella condiscendenza (synkatàbasis) del provvido nostro Dio, che già San Giovanni Crisostomo con somme lodi esaltò e più e più volte asseverò trovarsi nei Sacri Libri (Cfr. Gen. I, 4; Gen. II, 21; Gen. III, 8; Hom. 15 in Joan. I, 18: PG. LIX, col. 97 e segg.).




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