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della riducibilità o irriducibilità delle dieci categorie
aristoteliche, resta pur sempre che l’arresto dell’analisi del pensiero o a
tutte esse o a quelle di esse che son vere categorie è un atto arbitrario
perché dev’essere di diritto proseguita a quelle nozioni trascendentali per
contemplazione, le quali saranno degne di non essere trattate alla stessa
stregua degli altri concetti, ma o sono concetti reali e validi e allora sono
le vere categorie supreme di tutte le categorie sussumenti sotto di sé tutti i
concetti, o sono miraggi del pensiero e allora non si vede come il pensiero
possa pensare in generale un concetto che non è intelligibile se non è pensato
almeno come uno, esistente, vero; tralasciamo i trascendentali dell’unità e
della verità che sono esclusivamente funzionali e quindi possono anche pensarsi
come denotazioni che in nulla toccano le altre note del resto della
connotazione di un concetto, ma il trascendentale dell’esistente riguarda sia
il semplice pensamento del concetto in quanto rappresentazione entro il
fenomenico intuito sia la modalità di apodittico secondo cui vien pensato e
quindi l’apoditticità dell’intera connotazione e, per ciò, l’intero concetto
stesso in quanto esistente secondo certi modi qualificativi che son suoi e non
del pensiero che lo pensa; ma la trascendentalità della nozione di esistenza
non è che un nome dato alla sua funzione di denotante comune dell’intera classe
dei concetti, alla sua funzione di classe delle classi intelligibili, e questa
sua funzione stabilisce una relatezza tra tutti i concetti possibili, relatezza
cha sarà sì indeterminata e ignota e resterà tale in eterno per il pensiero, ma
neppure consentirà mai al pensiero di porre come assolutamente irrelati due
concetti, dovendo esso argomentare per entrambi un’unità di relazione, ignota e
indeterminata, che estesa a tutti i concetti fa di questi il regno ((segno??))
dell’unità del pensiero e dell’unità dell’universo; se questa è falsa, sarà
falsa la categorialità dell’esistente, ma sarà pure falsa e illegittimita
l’intepretazione, qualsivoglia sia, dell’universo stesso; s’imporrà il silenzio
su di esso -; in secondo luogo, la disgiunzione dei due concetti non nasce dai
due concetti stessi, ciascuno preso sic et simpliciter: la separazione tra la
nozione del rapporto lato-diagonale in un quadrato e la nozione di
commensurabilità non ha luogo tra i due concetti presi secondo un punto di
vista identico, sotto condizioni identiche, secondo metodi di analisi identici,
in una identica considerazione del loro modo
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di essere e del loro essere; i due concetti vengono separati, essendo
però quello che nella proposizione prima, quella attestante la loro relazione
di inerenza, aveva funzioni di soggetto, assunto nella sua intera connotazione,
o nota o conoscibile, o parziale o totale, tuttavia articolata in tutte quelle
note entro il cui novero è lecito trovare o l’altro concetto o almeno le
condizioni per il suo inerire, essendo invece l’altro concetto, quello con
funzioni di predicato, entro la proposizione prima assunto come denotato dalla
sua nota essenziale, quella che fa di esso ciò che esso è, che impone ad essa
di essere secondo i suoi modi, che eretta a genere si pone come
l’indeterminato, ma fondamentale, di cui il resto delle note è determinante, ma
contingente ai fini di una mera intellezione del concetto stesso; la
separazione tra √2 ((leggi:” radice di 2”)) e commensurabilità è
separazione tra A (= √2), in quanto A1, A2, A3,...An,
e B (=commensurabilità) in quanto B1 (=genere essenziale di B = nota
di multiplo rispetto a un dato quantitativo, denotante contemporaneamente due
enti quantitativi); ora, la separazione non è di fatto tra i due perché
altrimenti non sarebbe mai stata neppure sostituita, sia pure temporaneamente,
da un loro rapporto relazionale: nessuno che conosca tutti i molteplici di una
sintesi, che li enumeri in serie, pensa all’inerenza di un ente, differente da
ciascuno dei molteplici e non esistenti a lato di tutti i molteplici nella
sintesi, entro la sintesi stessa; la separazione tra due concetti che sono separati
non è neppure posta; nessuna mente di geometra pone la separazione tra diametro
e poligono, muovendo dal semplice darsi dei due concetti. E’ necessario che
qualcosa d’altro si offra al pensiero come un pensato e precisamente il
rapporto di inerenza tra la denotazione essenziale dell’un concetto e la
connotazione complessiva dell’altro concetto; il che non va affatto a finire là
dove è cominciato, già sopra; il nostro discorso sulla negazione; e allora la
separazione si dà tra il rapporto di inerenza in quanto pensato di fatto e
quindi proclamante la propria produttività di cognizione e di intelligenza e il
medesimo rapporto di inerenza in quanto pensabile di diritto e quindi
ritrovante in checchessia la ragion sufficiente delle sue pretese. Qui manca l’unica
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relatezza possibile, quella di identità tra i due, perché l’uno è un
pensato con autoconsapevolezza di una pretesa che deve avere altro a propria
ragione e che non ha a propria ragione se non se stessa, cioè il suo esistere
di fatto, e l’altro è il medesimo pensato con autoconsapevolezza dell’illiceità
della pretesa a farsi ragion sufficiente di se stessa: il modulo del confronto
non è l’irrelatezza dei due concetti, ma l’irrelatezza dei due rapporti tra i
due concetti, quello di diritto e quello di fatto, che dovrebbero essere
identici e identicamente denotati e invece sono eterogenei ed eterogeneamente
denotati - il rapporto tra √2 ((leggi: radice di due)) e commensurabilità
pensata di fatto, se non altro per deduzione dalla postulata commensurabilità
di tutte le relazioni tra quantitativi, e il medesimo rapporto pensato di
diritto sono stati dichiarati eterogenei e quindi separati, disgiunti,
irrelativizzati l’uno dall’altro; s’intende che il processo indagativo che ha
condotto a dichiarare inidentici i due rapporti è quello che sfocia nella
negazione di commensurabilità di √2, ma è evidente che siffatto sfocio
consiste anzitutto in una separazione tra il concetto ideale e il concetto
reale del reciproco rapporto, che è rapporto di inerenza dell’uno nell’altro,
dei medesimi concetti.- Che poi alla separazione dei due rapporti consegua la
separazione dei due concetti, è fenomeno del pensiero di fatto e non del
pensiero di diritto, come abbiamo dimostrato: la liceità di pensare sempre due
concetti qualsivogliano o addirittura presi a casi secondo una certa
connessione reciproca imposta di una relazione determinata di intelligibilità
può essere apriori o aposteriori e, nel caso che sia apriori, è la semplice
inferenza formale dall’universale condizione di relatezza in cui tutti i
concetti debbono essere posti per lo stato di unità da cui l’intero ordine
degli intelligibili è qualificato, mentre nel caso che sia aposteriori, è
l’enunciazione formale di un effettivo stato di relatezza in cui i due concetti
vengono immediatamente e materialmente appresi; ora a parte il fatto che la
connessione relazionale tra due concetti non è unica ed univoca, sicché quel
rapporto di inerenza nel quale i due concetti, termini della negazione, sono
dal pensiero nel suo primo momento pensati di fatto non è che uno dei vari modi
di connessione tra intelligibili, resta sempre che in quel medesimo primo
momento la relazione di inerenza è posta di fatto come immediata o almeno come
immediatamente intuibile senza che con ciò si voglia ecludere che ad un più
approfondito esame l’inerenza possa apparire mediata da un numero
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più o meno grande di inerenze intermedie; il primo momento quindi del
processo sfociante nella negazione è l’affermazione di un rapporto di inerenza
immediata tra un concetto e un altro, affermazione che verbalmente si traduce
nel’enunciato che ha il primo concetto a predicato e il secondo a soggetto,
anche se apriori si deve sempre ammettere uno stato di relazione tra due
concetti qualsivogliano, qualora l’intuizione non offra aposteriori siffatto
stato come connessione di inerenza od offra una relazione di altro tipo,
diverrà necessario per il pensiero separare il rapporto di inerenza tra i due
concetti della negazione che diverrà ente puramente effettivo o di fatto, dal
rapporto di diritto tra essi medesimi il quale come ente di diritto sarà o
problematico o apodittico, sempre comunque non di inerenza, imponendo la
differenza una separazione assoluta che non instaura contraddizione tra la relatezza
dei due concetti che è generica e la separazione dei due loro rapporti che sono
rapporti di inerenza. Che se poi ci si chiede come sia possibile al pensiero
stabilire siffatta separazione tra il rapporto inerenziale ideale o di diritto
e il rapporto connettivo di fatto, il quale può essere sì un rapporto di altra
classe, nel qual caso l’eterogeneità è ragione immediata e sufficiente della
separazione, ma può anche essere connessione qualsivoglia puramente possibile e
quindi nel campo dell’intuizione effettiva irrelatezza, basterà tener presenti
le operazioni, che il pensiero compie secondo le modalità stabilite dal
principio di ragione, su tutti gli enti che vengono accolti come enti
intelligibili apodittici e quindi legittimi e quindi anche di fatto; apparirà
allora come la ragion sufficiente di una connessione relazionale tra due
concetti sia o l’effettivo stato di relazione tra essi immediatamente intuito o
la conseguenza di una serie di condizioni più o meno vasta che interessano
entrambi i concetti e che consentono od escludono la connessione, la quale
conseguenza vien sempre a coincidere con l’effettivo stato di relazione, questa
volta soltanto argomentato; il rapporto di inerenza ideale o di diritto esige
siffatta ragione, ma vede alla sua esigenza corrispondere o una separazione
insuperabile, almeno entro i limiti del conoscere in atto, tra i due concetti,
o una connessione altra però da quella che esso pone come unica possibile
ragione, mentre il rapporto di inerenza asserito di fatto pretende di godere di
fatto di una ragione identica a quella richiesta dal rapporto ideale: di qui la
seguente struttura di connessione: il rapporto di inerenza affermato di fatto
dal pensiero nella sua prima fase rimanda allo stato di
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