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una situazione di contraddittorietà o immediatamente evidente o
mediatamente conoscibile per inferenza, si sostituisce al riscontro
dell’intuizione e mena agli stessi risultati; è da dirsi però che quest’ultimo
mezzo è di gran lunga inferiore al precedente cui si equipara in valore nel
solo caso che lo stato di congruenza tra soggetto e predicato sia inferito
dalla nozione delle connotazioni dei due pensati convalidata, per altra strada,
da intuizioni sensoriali differenti da quella che si richiederebbe ma che il
pensiero ignora, il che significa che la sostituzione al confronto diretto tra
intellettivo ed intuito di un mero discorso per intelligibili gode di un valore
cognitivo pari a quello offerto dall’intuizione sensoriale diretta solo quando
alla intuizione sensoriale diretta si sostituisca un’altra intuizione
sensoriale o immediatamente o mediatamente equipollente; fuor di qui qualsivoglia
sostituto è sempre ragion sufficiente molto incerta o se non altro non ricca
della medesima certezza della percezione sensoriale, e basta a provarlo la
debolezza del metodo argomentativo indiretto o la debolezza del metodo
deduttivo a principi non induttivi, debolezza che si fa vanità dinanzi a una
contraddizione mossa contro i risultati dei due metodi da un dato sensoriale ed
intuito. Comunque siffatto confronto dell’intellettivo con l’intuito è come già
abbiam descritto fatto complesso, che vede affiancarsi dentro di sé la
contrapposizione all’affermazione prima, in quanto rapporto inerenziale di
fatto, un’affermazione di un rapporto inerenziale di diritto e successivamente
la verifica della pretesa della prima a inverare in sé la seconda con il
ricorso all’intuito sensoriale. Esso può portare all’osservazione che il dato
intuitivo mi rimanda il concetto predicato al soggetto nell’affermazione prima
e destinato ad esser negato del soggetto nel giudizio in cui il discorso
conclude, è assolutamente diverso da ognuno dei dati intuitivi che compongono
la percezione correlata al concetto che è soggetto nel primo e nell’ultimo dei
giudizi; col che provoca necessariamente nel pensiero una serie di atti, che
già abbiam descritti e che costituiscono quella serie di momenti che media tra
il momento terzo e il momento realmente negativo dell’intero processo: la
separazione del rapporto inerenziale di fatto dal rapporto inerenziale di
diritto come quarto momento, l’illiceità di considerare effettuale il rapporto
inerenziale di diritto e di diritto il rapporto inerenziale di fatto,
l’esclusione di entrambi dalla sfera
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dialettica operativa -nessuno e nulla impediscono di immaginare in un
romanzo o di drammatizzare in una tragedia o di analizzare in una teoria
biologica le vicende gli atti e le funzioni di un individuo umano perpetuo
nella vita del corpo; nessuno e nulla indurranno ad utilizzare i dati del
romanzo del dramma del trattato a fini pratici e fenomenici -, in particolare
l’esclusione da siffatta sfera del rapporto inerenziale di fatto e di ciò che
questo comporta, la presenza della nozione del predicato entro la connotazione
del soggetto, e infine l’esclusione del predicato da questa connotazione,
esclusione di cui il giudizio negativo è “ supposizione” ossia comunicazione e
segno. E val la pena prima di proseguire di ritornare su quell’epidermica
contraddizione che starebbe tra l’universale relazionalità di tutti i concetti
e questa separazione o irrelatezza assoluta di due concetti di cui una
negazione è indice, e che coinvolgerebbe anche ciò che di questa irrelatezza è
principio, la separazione cioè o irrelatezza assoluta tra il rapporto
inerenziale di fatto e il rapporto inerenziale di diritto: sembrerebbe che una
volta affermata la sistematicità apriori di tutte le rappresentazioni
intelligibili nessun concetto potesse darsi che non fosse in rapporto
qualsivoglia con un altro e che una volta dislocati due concetti a differenti
livelli di intelligibilità, ferma restando l’universale sistematicità, dovesse
risultare sempre lecita una qualsivoglia sussunzione del concetto a livello
inferiore sotto il concetto a livello superiore e, di conseguenza, una
qualsivoglia identità tra una o più componenti del complesso percettivo intuito
e quell’intuizione che è intelletta nel predicato, con la conseguenza che la
liceità della separazione dei due rapporti inerenziali e della loro esclusione
dalla denotazione di legittimità non sarebbe data; il che in un certo modo è
quel che nega Platone quando scende dai piani generici ai piani specifici per
un’operazione dicotomica la quale fa della specie non già un più ricco, ma un
più povero del genere, e quindi della negazione una separazione sì del rapporto
di fatto tra genere e specie tra l’identico rapporto di diritto, quando il
rapporto si dia tra il genere e una delle specie che son classi del contrario
braccio fluente dallo scisma dicotomico, ma una separazione che denuncia la
povertà relativa della specie rispetto al genere, e, con ciò, la contingenza
della negazione stessa che sussiste sul piano della specie ma vanifica a
livello del genere; ma ciò è invece affermato in pieno da Aristotele il quale,
nel momento in cui fa
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di una specie un’attuazione parziale dell’intera sfera del potenziale
entro il genere, è costretto ad equiparare specie a genere in un rapporto di
equivalenza quantitativa, essendo la specie l’atto del generico e dello
specifico suo proprio e insieme il potenziale dello specifico delle altre sue
specie cogeneri, giacché si deve inferire dal fatto che la specie sia il genere
in atto anche questo che l’attuazione del genere entro la specie si dia per un
essere di tutto il generico entro la specie stessa e quindi anche di ciò che
nel genere è potenza, ed essendo quindi la specie una totalità composita che
per ciò che riguarda le componenti è tutto ciò che di attuale e di potenziale
si dà nel genere, e il genere una totalità composita le cui componenti sono
quello stesso che o attuale o potenziale ritroviamo nella specie, sicché le differenze
tra i due sarebbero meramente qualitative variando nella specie solo quello
specifico che da potenziale nel genere si è fatto attuale nella specie attuando
con ciò stesso il genere secondo siffatta specie; e un simile discorso sembra
superare la contraddizione cui accennavamo sopra, in quanto l’esclusione di un
genere da una specie, ossia la separazione del loro rapporto inerenziale di
fatto dal loro rapporto inerenziale di diritto, riguarda soltanto il potenziale
e l’attuale dei due, non in definitiva l’essenziale, nel senso che ciò che da
una specie è negato come inerente e predicabile sarà o ciò che in un genere c’è
di potenziale che è rimasto potenziale anche nella specie o quel genere che è
specie di quest’ultimo in quanto attuazione di questo stesso potenziale senza
per questo attuare tale quantità di potenza da rendersi cogenere della specie
considerata; perciò, nella mente dell’Atto puro e nella contemplazione che
l’Atto primo è di se stesso, negazione non si dà in quanto l’intuizione che egli
ha in simultaneità di tutte le correnti di intelligibilità che scendono dalla
categoria suprema ai concetti infimi intellezione di tutti gli individui del
cosmo tutto ciò che è un genere si dà in una specie non essendo la specie se
non lo stesso genere variamente sfumato nei “colori” universali e necessari che
lo compongono sicché tutto è predicabile di tutto: ma, a parte il fatto che né
il quadro che ci dà Platone né il quadro aristotelico sono totalmente
soddisfacenti, perché se è vero che partendo dal genere nulla di questo è
escludibile da una qualsivoglia specie subordinata, è altrettanto vero che solo
a parole questo è vero, in quanto avremmo esclusione
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di negazione nel moto discensivo dall’apriori se questo di fatto non
esistesse e se tutto l’intelligibile rimanesse dipanato nel genere supremo e
non si sdipanasse nelle specie subordinate - dire che A non è B, significa sì
dire che B non è in A, ma significa anche dire che B1 B2
B3...Bn, connotazione di B, e A1, A2,
A3...An, connotazione di A sono tali per cui B1
≠ A1, B1 ≠ A2, B1 ≠
A3,..., B1 ≠ An, B2 ≠ A1,
B2 ≠ A2, B2 ≠ A3...., B2
≠ An, ecc., e nel moto di discesa dall’apriori platonico
non sarà dato dire che A è B, qualora A sia specie di B connotata però da
quelle note di B che denotano A1 specie altra da B per dicotomia, in
quanto se B3 e B4 connotano A1 si avrà che A è
B1 e B2, ma non che A è B (= B1 B2
B3 B4...Bn), e nemmeno nel moto di discesa
dall’apriori, quale lo descrive Aristotele sarà dato dire che A è B, essendo A
specie di B, in quanto sarà qui indubbiamente vero che A (= A1, A2,
A3...An) = B (=B1, B2, B3...Bn),
purché però s’intenda che [A(=A1, A2, A3...An)
= B (= B1, B2, B3,...Bn)] = [A (= A1
in atto, A2 in atto, A3 in atto, A4 in
potenza,...An in potenza)] = B (= B1 in atto, B2
in atto, B3 in potenza, B4 in potenza,...Bn in
potenza )]; e siffatta illiceità non è che l’indice di un trasferimento
dell’ineluttabilità della negazione entro la sfera della conoscenza umana in
quanto fenomenica in funzione delle condizioni in cui l’intuizione fenomenica pone
l’intera classe degli intelligibili, alla sfera degli intelligibili
trascendenti o in un mondo di idee o in un pensiero divino, trasferimento che
tra l’altro è comprovato dall’intelligibilità della dicotomia nel sistema
platonico, la quale delle tre l’una: o è giustificabile solo se il genere è un
implicito indifferenziato e inconoscibile che attende determinazione e
chiarificazione per distinzione attraverso il proprio calare nello scisma delle
specie, ma in questo caso bisogna argomentare un buio e una cecità cognitivi e
razionali che si fa tanto più grande via via che si sale verso il concetto
dell’Essere-Bene in cui precipita nelle più tenebrose delle primordialità
caotiche, o non riceve per nulla nessuna giustificazione dal fatto di
un’obnubilata modalità di essere dei generi che si fanno sempre tanto più cupi
e indistinti quanto più depongono la loro forma di specie, in quanto
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