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parole il fine di un organismo è quello di esistere secondo certi modi
che sono suoi in funzione di un rapporto tra fine ed organismo che è di
identità sicché il venir meno dell’uno segue il venir meno dell’altro; tra fine
dell’universo in quanto totalità delle determinazioni e l’universo stesso non
c’è identità, essendo il fine la realizzazione di un certo numero di
differenziazioni ed essendo l’universo la realizzazione di un numero di tali
differenziazioni che può oppure no coincidere con il numero ideale senza che
per questo l’universo debba rispettivamente esistere o cessare di esistere;
mentre in un organicismo l’organismo in quanto esistente condiziona l’esistenza
da fine e viceversa, e l’organismo è strumento necessario e ineliminabile del
perseguimento e della realizzazione del fine, con la conseguenza che il fine
c’è se c’è l’organismo e l’organismo c’è se realizza il fine, nel punto di
vista aristotelico la strumentalità dell’universo rispetto al fine della
realizzazione di tutte le possibili differenziazioni ontiche è puramente
contingente, nel senso che l’universo è strumento apodittico per la
realizzazione del fine solo nei confronti della generalità di questo, con la conseguenza
che la realizzazione della totalità particolareggiata del fine non è condizione
esclusiva dell’esistenza dell’universo stesso, il qual rapporto è poi quello
che in genere un aristotelismo pone tra
la potenza o l’atto in seno alla sostanza; l’universo quindi esiste anche se non realizza tutto il fine; il che
è negazione dell’organicità dell’universo -; da ultimo neppure la terza
condizione è presente in una teoria di tipo aristotelico, in quanto la porzione
del totalmente determinato dipende per il proprio esistere non tanto dalla
simultanea coesistenza di tutta la restante parte di totalmente determinato,
quanto dalla simultaneità di esistenza e di se stessa e di quelle parti di
totalmente determinato che sono ragioni sufficienti della sua stessa esistenza,
esistenza che non coincide con la differenza tra il tutto ed essa stessa. Ora,
la conseguenza dell’assenza di tutt’e tre le condizioni toglie all’universo del
totalmente determinato il carattere di unità assoluta e gli lascia solo
l’aspetto di un ‘unità relativa, di un uno cioè che è tale se ricondotto o al
principio della sua razionalità o a un pensiero conoscente in genere secondo i
modi di questa razionalità, ma che in sé è pluralità. Ma se il totalmente
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determinato è in sé un plurale, una molteplicità di parti ciascuna
autonoma nella propria astratta esistenza, le parti componenti non solo possono
ma debbono essere sempre relate sia coi livelli di minor determinatezza che
soli costituiscono la ragion sufficiente del suo esistere sia con la restante
parte del totalmente determinato alle quali tali parti debbono essere
ricondotte onde il fine per cui si realizza la determinazione del principio
risulti perseguito in generale sia con le varie porzioni di tale restante parte
onde risulti determinatamente la realizzazione del fine che è ragion
sufficiente dell’esistere delle singole determinazioni massime; ma la necessità
della rapportazione è negazione. Si deve concludere che per una teoria
metafisica di tipo aristotelico la negazione è reale a tutti i livelli di
esistente, cessando di esistere solo a livello del totalmente determinato in
quanto però unità per altro, sicché anche a siffatto livello in sé la negazione
è reale: per questo il supremo canone resterà sempre per Aristotele il
principio di contraddizione. Non è qui nostra intenzione ricercare quanto il
fatto della negazione abbia influito sul quadro che delle cose han cercato di
farsi Platone, Aristotele e quanti si son rifatti o a questo o a quello per
assumere i canoni metodici generali; non può tuttavia sfuggire che, qualora ci
si rifaccia alle due metafisiche per dedurne non una fenomenologia della
negazione ma le ragioni sufficienti che
ne giustifichino l’esistere e le modalità di esistenza, l’una e l’altra teoria
acquistano particolari aspetti che altrimenti o sfuggirebbero o risuonerebbero
di una totalità diversa: in primo luogo, un orientamento platonico è portato da
un’innata tendenza ad estromettere la negazione dal reale come qualcosa che la
ragione patisce a titolo di condizione contingente e fenomenica, a titolo di
fenomeno con tutto quel che di umbratile ed evanescente questo termine
racchiude; per questo, un platonismo sulla base dell’identificazione del reale
col razionale puro attribuisce realtà assoluta e perfetta al supremo categorico
dell’intera piramide concettuale dentro il quale s’aduna la totalità
del’intelligibilità con una possibilità di autopredicazione che esclude il
negativo, non già per il fatto generico che un qualsiasi rapporto di un pensato
con se stesso si pone di diritto e di fatto come inerenza del pensato nel
pensato, quanto piuttosto per il fatto che qualsivoglia connessione di inerenza
tra un pensabile e il categorico supremo è verificata dal simmetrico
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rapporto di diritto, indipendentemente da qualsivoglia altra
predicazione d inerenza sia stata posta o sia per porsi tra il medesimo
soggetto ed altro predicato: per questo un platonismo toglie il primato
canonico al principio di contraddizione e lo attribuisce al principio di identità,
dovendo addirittura pervenire, se vuol essere del tutto coerente, a negare una
qualsiasi portata canonica al principio di contraddizione stesso: infatti,
l’onnirazionalità del categorico supremo fattasi principio di intelligibilità
per qualsivoglia pensato esclude la liceità di negare di esso, in quanto
soggetto, un genere di cui il pensato non sia sottoclasse, in quanto tale
genere una volta predicato col genere sommo entra in questo in vincolo di unità
con il genere opposto di cui il pensato è specie e quindi sussume sotto di sé
pel medio del supremo categorico anche ciò che non sia sua sottoclasse; il che
è d’altro canto indirettamente argomentato dalla convertibilità, legittima in
un platonismo, di tutti i giudizi categorici, della quale è ragion sufficiente
la genesi dal razionale sommo di realtà od ontità piuttosto che di
intelligenza; il che, invece, non si verifica in una metafisica determinata di
tipo aristotelico, per la quale la distinzione tra una razionalità pura e una
razionalità di tipo umano ossia fenomenica non è in funzione del rovesciamento
del rapporto tra il categorico e lo speciale, rapporto che per il razionale in
sé sarebbe di tutto a parte e per il razionale fenomenico o per altro sarebbe
di parte a tutto - per un platonismo, difatti, l’eterogeneità tra razionale
puro ed assoluto o in sé e razionale fenomenico e relativo o di tipo umano o
per altro affetta la denotazione, la quale per il primo s’instaura dalla specie
al genere e per il secondo dal genere alla specie-, ma è in funzione di una
differente ricchezza ontica che nel razionale puro ed assoluto è totalmente
data nei due modi del potenziale e dell’attuale, mentre nel razionale
fenomenico e relativo è data sola ((solo??)) relativamente alle specie che
risultano note - in realtà, il razionale puro di tipo aristotelico è ricco di tutta la sua ontità in sé fuor da
qualunque rapporto, sicché ogni membro che lo costituisce è, preso nella sua
assoluta intelligibilità, totalmente dato e non ha bisogno per riempirsi
dell’intelligibilità che gli è propria di rapportarsi a nessuna sua sottoclasse
dalla cui attualità inferire la propria potenzialità; il razionale fenomenico,
invece, sempre di tipo aristotelico si offre nella sua astratta intelligibilità
solo con quella connotazione che gli è fornita dalla coessenzialità con una
qualsiasi delle sue specie e attende da una sua
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connessione con la totalità delle specie sottoordinate la connotazione
della sua zona potenziale; onde si deve concludere che per un aristotelismo
razionale puro e razionale fenomenico-umano sono eterogenei ma nella
connotazione; ora, per siffatta differenza la struttura del razionale puro
viene a distinguersi dalla struttura del razionale fenomenico in modo ben più
tenue e meno sconvolgente, giacché, se è vero che il razionale fenomenico sarà
sempre meno ricco di contenuto dell’altro, è pure vero che nella struttura
formale non differiscono in quanto il potenziale o presente, come nel razionale
ontico, o assente, come nel razionale noto, non genera del reale, ma si limita
a segnare le linee per dir così programmatiche del reale, attendendo da questo
la propria realtà; perciò, come nel
pensiero umano la ricchezza totale del conoscere si dà a livello delle specie
infime le quali attendono dalla scala sovraordinata da razionale un semplice
faro di universalità e necessità che d’altra parte non sarà neppure totale
perché quell’universale e necessario che coincide con le loro differenze
specifiche dovrà trarre luce di intelligibilità da se stesso, così nella sfera
ontica i livelli sovraordinati di razionale dovranno limitarsi a donare ai
sottoordinati tanto di ontità universale e necessaria quanto già ne posseggono
in sé allo stato di atto, e saranno costretti a mutuare dai sottoordinati
quell’ontità universale e necessaria che questi hanno attuato in sé traendolo dal potenziale del sovraordinato,
il che tradotto in termini di conoscenza e di predicazione equivale alla
situazione del pensiero fenomenico nel quale la specie è conosciuta e predicata
dal genere per ciò che riguarda quanto di coessenziale hanno in comune, ma
illumina e denota il genere quando si tratta di apprendere quali intelligibili
possono affettare l’essenziale del genere, ossia quali dei generi paralleli e
simultanei a questo nella denotazione della specie possono essere assunti a
determinare il generico essenziale stesso; in conseguenza di ciò, per una
metafisica aristotelica la coincidenza tra reale e razionale non distingue un
razionale puro da un razionale fenomenico e, essendo limitata la differenza tra
un razionale puro e un razionale fenomenico alle connotazioni degli
intelligibili che li compongono, la realtà verrà affermata coincidente col
razionale in cui non sia più lecita distinzione alcuna, in cui la connotazionne
sia unica ed univoca per un razionale in genere, il che appunto si dà solo a
livello delle specie infime, in quanto connotate
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