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In forza di siffatti rapporti la negazione diviene un reale assoluto in
quanto presente in tutte le sfere di reale a qualunque classificazione il reale
venga ridotto, essendo costante l’eterogeneità che distingue ogni componente di
un livello generico dalle componenti di
uno qualunque tra i livelli speciali sottoordinati le quali non rientrino sotto
la sua sussunzione.
Di qui deriva la terza delle fondamentali differenze che separano una
metafisica a struttura platonica da una metafisica a struttura aristotelica:
entrambe le dottrine hanno a loro presupposto, comunque lo argomentino, il
giudizio che stabilisce un’equivalenza tra pensiero e pensato, tra reale
rappresentato secondo razionalità e il reale ontologicamente esistenziale; ma
mentre per un platonismo tale equivalenza è di fatto una coincidenza essendo i
due ordini una sola e stessa e cosa che nel suo primo modo di pensare è ed
insieme è rappresentata, patendo l’ordine del reale pensato alterazioni ben
determinate in funzione di condizioni deformatrici inerenti al soggetto
conoscente nel caso che questo, ossia il rappresentante, non goda della facoltà
meramente riflettente dell’intuizione pura, essendo siffatto ordine sgombro da
ogni modificazione alteratrice nel caso che il soggetto riflettente sia un puro
intuente, l’aristotelismo deve ricondurre l’equivalenza presupposta fra pensato
ed ontico ad una sorta di mera corrispondenza formale, a un’equiparazione di
strutture per le quali benché si diano identiche alcune delle leggi
generalissime regolanti la connotazione e la denotazione degli intelligibili in
genere, pure tutte quelle leggi, che son norme per la connotazione e la
denotazione degli intelligibili ma in funzione della materia connotante e
condizionante la denotazione, non risultano omogenee a seconda che riguardino
l’ordine del pensato o l’ordine dell’ontico: per la metafisica platonica
pensiero e pensato, o per il pensiero o in sé, coincidono o in tutto o in
parte, per la metafisica aristotelica non esiste coincidenza tra pensiero e
pensato, si debba ricercare la ragione di siffatta differenza rispettivamente
nella definizione platonica per la quale si riduce il fenomenico materiale ad
un esistente indubitabile che però può tranquillamente essere eliso dal calcolo
degli intelligibili come quello che non solo non è riducibile ad intelligibile
ma è in una connessione puramente contingente col razionale, e nel concetto
aristotelico che dall’irrefutabile esistenza del fenomenico materiale inferisce
una certa sua, sia pur imperfetta e tenue, parentela con l’intelligibile e una
certa sua connessione apodittica con l’intelligibile, per la quale se il
materiale non può ritrovar diritto di esistenza fuori da una sua inferenza
dall’intelligibile, neppure questo trova ragion sufficiente esauriente del suo
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esserci senza una sua dipendenza funzionale dal materiale fenomenico,
dal che deriva ad entrambi il carattere di fattori equivalenti ed equipollenti
del calcolo interpretativo del reale, oppure la ragione di siffatta differenza
consista nella generica osservazione di una condizione di reciprocità tra
materiale e fenomenico e, per ciò, rispettivamente nel disegno platonico di
fissare al((il??)) reticolato degli intelligibili, pensati od ontici, secondo
una reciprocità esclusiva della negazione in genere, con l’intento di ridurre
il materiale fenomenico ad un esistente che in definitiva si può trascurare e
misconoscere come un sotto-esistente, e nel criterio aristotelico di immettere
nella relazionalità, che intesse in unità la molteplicità degli intelligibili,
modi che hanno a loro effetto la negazione e che quindi consentono al materiale
fenomenico di entrare nell’intreccio dell’ordito con la stessa dignità e gli
stessi diritti degli intelligibili puri. Per intendere un ordito concettuale di
tipo platonico non c’è bisogno in fondo di fare della dicotomia la modalità
essenziale del generarsi degli
intelligibili gli uni dagli altri; la genesi dicotomica può facilitare lo
scoprimento di tutto ciò che di implicito c’è in un ordine concettuale a
struttura platonica, ma fa correre il grave rischio di essere costretti o a
gettare a mare la struttura perché troppo stretta rispetto all’intelligibile di
fatto manifestato dal reale fenomenico - per quanto ne so io, non pare che la
classificazione degli animali tolleri la canonica ordinativa della dicotomia -
o a sforzare l’intelligibile di fatto offerto dall’intuito fenomenico per
costringerlo ad entrare nel casellario dicotomico della classificazione
concettuale - che le sei operazioni aritmetiche possano gerarchizzarsi in
dicotomia sembra possibile ed anche
verisimile, se non evidente, ma che i cinque poliedri regolari, tutti cogeneri,
possono classificarsi dicotomicamente, dispari come sono, non riesco a vedere,
il che per me vale anche per i nove colori dell’iride, sicché si avrebbe il
diritto di ricondurre l’illiceità di una classificazione dicotomica
all’insipienza o cecità della situazione cognitiva umana se gli intelligibili
cogeneri, o ritenuti tali, fossero sempre e soltanto pari e se nel caso di una
loro disparità fosse sempre e soltanto segno dell’ignoranza e cecità di cui
sopra - o ad attribuire al pensiero umano delle insuperabili anomalie
deformatrice, sia pure soltanto contingenti e “terrene”, da aggiungersi a
quelle che un platonismo già per conto suo scopre e non può fare a meno di
scoprire; ma, a parte il fatto che nessuno di questi tre corni trilemmatici è
pacificamente introducibile, o per argomenti o come postulato, resta che la
dicotomia è molto meno essenziale per un ordinamento
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di intelligibili di tipo platonico. Quel che di veramente essenziale
c’è in questo ordine è che tra genere e specie immediatamente subordinata
sussiste una relazione di tutto a parte, per la quale, tuttavia, da un lato il
grado di subordinazione tra il tutto e la parte è monovalente e quindi
equivalente a quello che vincola lo stesso genere ad ogni altra delle specie
immediatamente subordinate, dall’altro la parte nell’atto in cui entra nel
tutto perde la sua fisionomia individuale, per la quale è un eterogeneo da
tutte le altre specie colivellari, e si unifica con tutte le altre specie
colivellari secondo un’unificazione che dev’essere pensata equiforme a quella
che patiscono le frazioni di un’unità monadica entro l’unità monadica stessa:
confesso che il mio pensiero non ha trovato in sé né un’immagine fantastica né
un’immagine fenomenica, intuita od evocata, né un concetto che gli offrano una
rappresentazione di siffatta unificazione che sia qualcosa di più determinato e
di più fotografico dell’unità generica ((ontico??)) di quanto non lo sia quel
rapporto tra componenti frazionarie entro l’unità e l’unità stessa, giacché, a
parte il fatto che i concetti matematici di parte frazionaria e di uno monadico
non sono che astrazioni da situazioni fenomeniche in cui l’unità monadica è in
un momento dato fuor da ogni spartizione e le porzioni frazionarie sono in un
momento successivo e secondo una suddivisione che per la sua irriversibilità ha
ridotto l’unità suddivisa a un molteplice inunificabile e l’unità in sé a una
mera immagine ricordata, resta pur sempre che il pensiero matematico può
ignorare siffatta irriversibilità e può pensare a un indifferente moto dall’uno
alle porzioni frazionarie e da queste a quello in quanto ha posto l’omogeneità
assoluta e tra l’uno e le sue frazioni e tra le frazioni stesse, sia che tale
omogeneità gli sia stata offerta dall’intuizione sia che esso l’abbia imposta o
sovrapposta all’intuito. Comunque, poiché questa aporia non deturpa la
fattispecie del nostro discorso e poiché su di essa dovremo tornarci, possiamo
anche postulare che nessuna inintelligibilità venga a viziare il fatto che più
intelligibili che sono eterogenei quando sussistono di per sé abbiano la capacità
di conservare tutta la loro connotazione e insieme di elevarsi a un grado di
così assoluta omogeneità da potersi giustapporre l’uno all’altro in modo da
formare una realtà continua, ininterrotta, neppure segnata da una
unidimensionale sutura, appunto l’uno monadico del genere loro immediatamente
sovrapposto. Per siffatta situazione essenziale poco importa mi pare che le
specie siano due o più di due limitandosi la differenza tra la dualità e la
pluralità delle specie ad esigere una rappresentazione dell’unificazione che
risolva rispettivamente l’aporia dell’omogeneizzazione
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di due contraddittori contrari o l’omogeneizzazione di molti
contraddittori diversi. Dunque, in tale interpretazione del rapporto di
denotazione tra gli intelligibili anche la connotazione di ciascun
intelligibile riceve una sua determinazione: ogni intelligibile è in sé
un’unità matematica e monadica in cui non si danno né parti né frazioni né
suddivisioni e nella quale, anche ammesso che in via del tutto astratta ci si
impegnasse a tracciare delle paratie divisorie, gli scompartimenti che ne
risulterebbero dovrebbero essere distinguibili diciamo così solo
geometricamente e quantitativamente, nessuna qualità dandosi nell’un
scompartimento che non si desse nell’altro e che provocasse un’eterogeneità e
una differenziazione tra i due: che se poi per l’intelligibile preso in
considerazione si cerca una conoscenza qualitativa che abbini alla
contemplazione dell’uniformità intelligibilità che si distende su tutta la sua
comprensione una visione delle differenze che inutilmente cerchiamo entro tale
uniformità, allora non resta che abbandonare il piano dell’intelligibile,
scendere ai livelli delle specie subordinate e sotto di esse sussunte,
assumerle in tutta la loro scalarità e nell’intera loro totalità e ricondurre
la varietà del qualitativo che è ricca di tante difformità quante sono le
specie sussunte, all’unità di quell’intelligibile che ora si è posto a genere:
da un lato un monadico universale e necessario, un ontico ontologico che è
l’unico degno di esser predicato dell’essere, dall’altro l’iride frazionata
delle sue modalità di essere; tra i due un rapporto di equiparazione che però
non è equazionale perché il complesso delle porzioni frazionali, neppure se
prese nella loro totalità, gode di quella pienezza di essere di cui è ricco il
primo, pienezza di essere che resta vacua parola finché ci limitiamo a dire di
essa che è valore, che è ontologica, che è unicamente e veramente identica con
se stessa, ma che può accostarsi a quel che di essa sentivano un Platone o un
Agostino o un Cusano o un Bruno o un Hegel, quando la si contempli come una
vitalità che gioisce e sorride in sé ed esplode in slanci che da lei si
dipartono e a lei ritorna((no??)) senza per questo aver bisogno di
attuarsi in questo modo anziché in
quello, con questo sentimento e non con quello, secondo questa azione invece di
quella, utilizzando questa e non quella delle sue facoltà: la sua compattezza
omogenea di intelligibile monadico è l’unità della persona che amiamo che nello
slancio d’amore non spartiamo in aspetti fisici e spirituali, non scindiamo in
quello dei modi somatici che è suo e in quelle delle attribuzioni psicologiche
che essa possiede, è l’unità del sole che nell’attimo infinitesimo in cui
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