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che giustifichi e legittimi il percorso determinatore, discendente o
ascendente; ma quando si comincia a determinare il connettivo sottostante
all’eterogeneità qualitativa, non resta che o a) identificarlo come una
particolare struttura che ripete per ciascun intelligibile la struttura propria
della nozione intelligibile complessiva, e, con ciò, vede la nota generica e le
note specifiche frangersi in un complesso di sottonote alcune delle quali
identiche e con funzioni di genericità, altre eterogenee e con funzioni di
specificità - e in tal modo viene a riprodursi per le denotazioni la stessa
situazione dei denotanti, dalla quale si può uscire con un’analisi identica
destinata ad andare all’infinito, rimandando sempre a un connettivo-substrato
che si risolve nell’identico modo della sovrastruttura e attende soluzione
della deficiente connessione da un nuovo substrato connettente, e così via -, o
b) scegliere fra i tanti possibili modi con cui il pensiero classifica le
connessioni fra eterogenei, escludendo però il modello causale, pei motivi di
cui sopra, modi che poi non son tanti e nessuno dei quali offre intellezione
del reale e immanente legame qualitativo che vincola i due e pone questa
intellezione a ragion sufficiente della necessità del rapporto funzionale; e
con ciò ci ritroviamo di fronte a un postulato che sarà materialmente diverso
dal giudizio da cui il platonismo inferisce l’unità degli intelligibili
ordinati in quanto destinato a costruirsi sulla qualità e non su determinazioni
aritmetico-quantitative, ma sarà, come quel giudizio, preda di un’identica
inintelligibilità concettuale o di un identico assurdo formale - il postulato
aristotelico dell’unità degli intelligibili potrebbe in fondo esprimersi così:
gli intelligibili che entrano come denotanti nella connotazione di un
qualsivoglia organismo razionali debbono essere dei qualitativi eterogenei e
insieme devono contenere una modalità qualitativa tale che, senza sussumersi
sull’identità equazionale, ponga una dialettica apodittica di transizione
qualitativa dall’un intelligibile all’altro -. Ora, a parte l’inintelligibilità
o assurdità del postulato che rendono comunque impensabile quell’unità
concettuale su cui si fonda la connessione ontologica degli intelligibili, il
postulato stesso non fa altro che riprodurre lo stato di un pensiero di
condizione umana che, limitandosi esclusivamente all’analisi del fenomenico suo
contenuto, vi rinviene un’eterogeneità e dispersione assoluta dei suoi
intelligibili, alle quali si può ovviare ma solo in parte con la sussunzione,
ossia con un ordine di successione che fonda la sua necessità sulla necessità
di antecedenza logico-esistenziale di certi intelligibili rispetto agli altri,
ordine di successione la cui apoditticità è
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a posteriori e tutt’al più può assumersi come freccia direzionale di un
certo orientamento verso un’unità qualitativa e non meramente funzionale degli
intelligibili; ma siffatta unità è destinata a rimanere per quel pensiero un
limite che nessuna analisi o induzione può conseguire e da cui mai potrà essere
dedotta quindi l’apoditticità apriori della subordinazione o logico-formale od
esistenziale -funzionale. Ora, se assenza di cognizione dell’unità significa
liceità di negazione per tutte le sussunzioni ad eccezione di quelle che hanno
a loro predicato la categoria o una delle categorie, non basta postulare
un’unità per elidere la liceità di negare una sussunzione, come dovrebbe
arguirsi dalla descrizione fattizia dell’ordine concettuale operata da un
aristotelismo; occorre la cognizione di siffatta unità, la quale però né un
aristotelismo con il suo postulato né il pensiero di condizione umana ce la
offrano ((offrono??))quantunque entrambi, sia pure in modo diverso, la
presuppongano. E ci pare, con questo, di aver sufficientemente dimostrato come
senz’altro sia contraddittorio il porre in assoluto la negazione coll’affermare
l’unità di tutti gli intelligibili, e insieme come la contraddizione non sia né
della nostra posizione fenomenica da cui siam mossi per definire il negativo né
da qualsiasi teoria da cui voglia partirsi, bensì sia nota essenziale della
fenomenicità del pensiero umano che ha dei mezzi solo parziali per unificare i
concetti, sì che mai riuscirà a darsi l’effettiva e completa rappresentazione
della loro unità o matematica od organica. E con ciò la negazione continua a
contraddire all’unità del concettuale, ma per una contraddizione che è per il
pensiero in genere, non per questo o per quello dei pensieri umani individuali.
Se lasciamo l’ambito delle interpretazioni metafisiche del contenuto di
pensiero e ritorniamo alle condizioni puramente fenomeniche ed intuitive sotto
cui l’abbiamo considerato al principio della nostra indagine sulla negazione,
possiamo renderci conto abbastanza facilmente che la negazione, ricondotta al
piano fenomenico, può esser definita solo facendo capo al tempo, oltreché ai
meri rapporti di denotazione fra rappresentato e rappresentata
((rappresentato??)). Chiamiamo qui tempo un certo rapporto di coesistenza o simultaneità fra più
ontici, rispetto ai quali la valutazione temporale è valida immediatamente per
quello di essi da cui muove l’attenzione cognitiva concentrata, essendo gli
altri degli enti sussidiari la cui valutazione temporale è soltanto mediata.
Posto
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siffatto rapporto di simultaneità, ne derivano da un lato la
conseguenza che esso non necessariamente è rapporto spaziale, quantunque debba
essere interpretato secondo un modo di coesistenza di cui lo stato spaziale è
la determinazione perfetta, dall’altro la conseguenza che la modalità del
coesistere a tendenza spaziale non è che un aspetto, per di più esplicito ed
epidermico, del rapporto stesso di simultaneità la cui complessità abbraccia
nel suo profondo, implicitamente, una relazione anche qualitativa: la prima conseguenza consente di attribuire
simultaneità anche a contenuti di pensiero che non paiono caratterizzati da
altra nota spaziale all’infuori della coesistenza, ad esempio ai concetti pei
quali, se è vero che la coesistenza è assicurata ogniqualvolta siano correlati
in una coppia di due membri in rapporto di tutto a parte, è pure vero che
l’assenza in atto della cognizione di tutte le note costituenti la totalità e
non coincidenti con la parte rilevata renderebbe vana la rapportazione se non
intervenisse l’implicita valutazione del membro tutto come ontico composito le
cui parti continuano ad esistere e quindi a coesistere nonostante la parziale
loro esclusione dalla sfera su cui l’attenzione agisce, e, di conseguenza, se
il pensiero non proiettasse indebitamente sul contenuto ideale i modi spaziali
propri del contenuto fenomenico noto per intuizione spaziale, in forza dei
quali dalla costanza di certi nessi, quali quelli geometrici, si inferisce la
coesistenza degli intuiti non presenti alla conoscenza o per esclusione dalla
sfera di azione dell’attenzione o per reale esclusione dai limiti
dell’intuizione vera e propria - la validità del giudizio A è B nasce dal nesso
che vincola B ad A come una parte al tutto e quindi come un ontico la cui
esistenza è garantita dalla sua appartenenza a quella sfera di ideale che è A,
la cui esistenza è già data e posta apriori rispetto alla posizione del
giudizio; escluso il caso di una tautologia assoluta, il caso cioè di una
totale indeterminazione di A riprodotta in B secondo un’identità completa di
connotazione e di denotazione, B è sempre posto con una connotazione
quantitativamente minore della connotazione di A e qualitativamente meno
articolata della connotazione di A, e per questo B si pone sempre come una
parte e frazione di A; anche pei giudizi di identità totale fra B ed A, nei
giudizi cioè matematici, il rapporto di parte a tutto permane fra predicato e
soggetto, e ciò può essere affermato nonostante e contro l’apparente
contraddizione in termini, in quanto, se è vero che in linea di puro diritto i
giudizi A è B e B è A, in cui A e B siano intelligibili matematici, sono sempre
veri e validi entrambi perché per essi è sempre legittima la conversione
semplice, è del pari vero che di fatto
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il processo dialettico in atto del discorso matematico adotta o l’uno o
l’altro, inserisce come suo momento o l’uno o l’altro e, nell’atto in cui fa
suo membro A è B esclude B è A e viceversa; ma nel far ciò inserisce una
differenza fra i due, la quale si riconduce sempre a questo che la distinzione
dei due giudizi è in funzione di una differenza che in ciascuno di essi è posta
tra il rispettivo soggetto e il rispettivo predicato, che è fondata su una
diversa quantità e qualificazione delle rispettive connotazioni e che attribuisce
al soggetto una denotazione più ricca di quella del predicato anche se la sua
superiorità è dovuta alla presenza di note contingenti rispetto all’essenza
matematica fondamentale dei due enti; ma se la validità del giudizio A è B
dipende da una maggior ampiezza della connotazione di A che per essa si pone
come atta ad abbracciare B in quanto sua parte, è posta non solo la
simultaneità di B con A, trovante a sua ragion sufficiente il rapporto di
contenuto a contenente, ma anche la simultaneità di tutte le note denotanti A,
e non solo di quelle che costituiscono la comprensione di B, ma anche di quelle
che giustapponendosi a B costringono questo a porsi come parte e quindi come
predicato di A; tuttavia, il giudizio stesso A è B non è soltanto l’asserita
inerenza di B in A, bensì anche un atto di conoscenza per cui di A si dà come
cognizione attuale soltanto B, verificandosi anche, nel caso che il pensiero
ignorasse tutto di A, che in seguito al giudizio l’ignoranza è divenuta
parziale sia rispetto a B che si ((è)) offerto come nozione consenziente la
rappresentazione parziale di A sia rispetto ad A che è appreso come un tutto
complesso di cui tutto s’ignora all’infuori del fatto che è composto di parti
ignote di cui una è B; siffatto modo di cognizione non è che il risultato di
una concentrazione di attenzione su di A che circoscrive e rileva in A la
semplice sfera di B escludendo dalla rappresentazione in atto sia tutte le
componenti di A escluse dalla sfera di B sia la rappresentazione analitica
della comprensione di B; ora, perché siffatta operazione che riduce la
comprensione nota di A a B e insieme garantisce ad A una larghezza di ontità
superiore a quella di B, non può aver luogo se non alla condizione che
contemporaneamente al giudizio il pensiero si offra una rappresentazione di A
differente da quella che il giudizio renderebbe lecita, una rappresentazione
cioè che attribuisce ad A la simultaneità di esistenza nel suo intimo di ontici
altri da B i quali possono coesistere con B, sebbene in atto ignorati,
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