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ragion
sufficiente costituita dall’ontità di un terzo momento contraddicente al primo
o per contraddittorietà per divenire o per contraddittorietà per molteplicità:
al pensiero, attuantesi in questa o in quella individuazione empirica, che
afferma che A è B, si oppone vittoriosamente il pensiero, attuantesi o nella
medesima o in altra individuazione empirica, che afferma che A non è B, perché
A è C o in un tempo che è lo stesso in cui dovrebbe darsi la predicazione di A
da parte di B pretesa dal primo pensiero, o sotto un punto di vista che è lo
stesso di quello da cui si è posto il primo pensiero per predicare B ad A,
essendo tale opposizione vittoriosa una vera e propria confutazione alla
pretesa sotto cui si è presentato il giudizio A è B.
Se l’agire
cognitivo si esplicasse in un ambiente caratterizzato da un’esclusiva
apoditticità, la negazione avrebbe esclusivamente tale schema con le sue
determinazioni, e, con ciò, avrebbe ragione Bergson a definire la negazione
come opposizione reale ad una precedente affermazione altrettanto reale; ma in
tal caso non si spiegherebbero due modi del negativo, la negazione che si pone
non come confutazione, ma come risposta data alla forma interrogativa-dubitativa,
comunque indagativo-ipotetica, sotto cui si è presentato il giudizio A è B, e
la negazione che rinuncia alla giustificazione del fatto e del diritto del
contraddittorio contemplato nel fenomenico di intuizione sensoriale per
adottare una differente ragion sufficiente della sua necessità e della sua
legittimità: non sempre, infatti, la negazione è una risposta elenchistica del
tipo: non è vero che A è B, bensì che A non è B, perché A, nello stesso momento
in cui dovrebbe essere B o sotto il punto di vista da cui risulterebbe B, è C,
perché talvolta la negazione è il risultato ultimo di un processo dialettico il
cui principio è l’affermazione A è B, ma nella forma interrogativa A è B?,
rispetto alla quale il giudizio A è B o A non è B è comunque verifica; e così
non sempre la negazione A non è B, confutazione di un A è B o verifica di un A è B?, fonda se stessa su un giudizio
A è C, potendo essere il giudizio, principio di validità del negativo, altro da
questo, di un’alterità che assegna alla negazione un’ampiezza indefinita, tale
da
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abbracciare
quel giudizio-limite, o, il che poi fa lo stesso, quel concetto-limite di cui
ci parla Kant, che altrimenti sarebbe impensabile e impossibile per il
pensiero. La facoltà della possibilità di cui il pensiero di condizione umana è
dotato si traduce nella effettualità delle operazioni interne in una
sussunzione di un particolare conosciuto sotto la categoria del possibile, come
nozione della compresenza in genere dell’esserci e del non esserci di un
qualsiasi pensato, sussunzione che è
lecita solo in quanto il particolare conosciuto sia esso stesso denotato dal
suo esserci e non esserci in simultaneità; poiché questa denotazione è
legittima per tutti i pensati, ad ogni rappresentazione che sia data al
pensiero con la connotazione parziale o totale il pensiero è in grado di
sottrarre la sua connotazione escludendone l’esistenza dalla conoscenza, con la
conseguenza che la rappresentazione, in quanto presente ed assente insieme,
diviene un possibile - è quel che si verifica, tra l’altro, in tutte le
posizioni di dubbio volontario e scientifico, allorché un certo noto, dotato di
particolari attributi universali e necessari, viene privato di alcuni di questi
attributi per un atto meditato ed esclusivamente soggettivo, sicché il noto,
ridotto ai modi di un possibile, costringe l’indagine a ricercare ulteriori
ragioni sufficienti a garantire l’esserci degli attributi sottratti -, allo
stesso modo che dinanzi a una rappresentazione zero, la quale manchi di note
denotanti o totalmente, essendo in tal caso un totalmente escluso dalla sfera
del pensato, o parzialmente, essendo in questo caso un escluso dal pensato
relativamente alle nozioni corrispondenti alle denotazioni assenti, il pensiero
gode della liceità di lasciare le note denotanti assenti nella loro originaria
inesistenza e insieme di dichiararle presenti alle cognizioni, e quindi di
estendere il termine indicante la rappresentazione fino ad abbracciare le note
denotanti ignorate che, pur mantenute
in questo stato originario di insipienza, salgono a un esistere formale e non
materiale-qualitativo o addirittura di adottare, nel caso di un’assenza totale
di denotazione, un vocabolo ad indicare la nozione assente che è divenuta
contemporaneamente nota nell’esistere in generale, ma non nel suo esistere
qualificato- questo si dà, ad esempio, pei cosiddetti canali di Marte, per una
nozione cioè che parzialmente connotante può essere mantenuta nella sua
parziale ignoranza, ma può anche venir denotata dalle note ignorate e insieme
affermate esistenti fuor da ogni qualificazione ipotetica, nel qual caso la
locuzione “con ali marziani((??marziane??)) “ designa una nozione possibile
limitatamente a una sua connotazione totalmente
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rappresentata;
d’altra parte analogo stato si verifica nei confronti della nozione di
pitecantropo, la cui connotazione, totalmente ignorata, vien lasciata nella sua
assenza di qualificazione, che è inesistenza di pensato, e insieme affermata
presente al pensiero anche se priva di qualificazione determinata, con la
conseguenza che il termine pitecantropo passa a designare una rappresentazione
possibile-. Data l’universalità di questo modo di operare cui nessuna
rappresentazione si sottrae, un qualsivoglia rapporto di immanenza, che è una
rappresentazione, viene dichiarato esistente dal pensiero anche nel caso che
nulla di oggettivo muova il pensiero a porlo, e con ciò genera quel suo segno
che è il giudizio categorico, A è B, in cui il predicato B, in quanto inerente
ad A, di fatto è assente dal pensiero, ma da questo viene contemporaneamente
affermato esistente, di un’esistenza tuttavia che non ha nessuna validità
cognitiva ad escludere l’assenza; in tal caso, le conseguenze sono numerose: il
rapporto di immanenza è accolto nel
pensato come un possibile, e la sua possibilità si converte nella
problematicità del giudizio A è B, la cui forma legittima diviene A può essere B; i due noti, rapporto e
giudizio, nonostante la loro possibilità, anzi grazie alla loro stessa possibilità
che li ha introdotti nella sfera dei pensati entro cui, stando alla loro
legittimità primaria non dovevano comparire, assumono dentro il complesso delle
rappresentazioni quella veste di ragioni sufficienti di una serie di operazioni
successive, che tutti i rapporti di immanenza e tutti i giudizi categorici
provocano, proprio per questo che, postisi come pensati in attesa di
giustificazione legittimante, ossia datisi come pensati di fatto che esigono il
riconoscimento di diritto, rimandano il pensiero a quell’oggettiva situazione
di immanenza, costituita dalla connotazione del termine di immanenza, ossia a
quella zona fenomenica di intuizione sensoriale entro cui deve essere dato
l’immanente onde il rapporto divenga di diritto e di fatto; l’analisi del
conosciuto il cui fatto è sorgente di pensiero legittimo, riscontra o non
riscontra l’immanenza del termine immanente, e, con ciò, converte la
possibilità in apoditticità facendo del rapporto di immanenza possibile un
rapporto di diritto e del giudizio categorico problematico un apodittico, o
annulla la possibilità escludendo dal pensato legittimo il rapporto di
immanenza e imponendo al giudizio categorico la forma negativa - è questa la
condizione sotto cui molte delle ipotesi si pongono e da cui molte delle
ipotesi ritraggono utilità e
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quindi
ragion d’essere, e d’altra parte è questa condizione che rende lecita la serie
delle negazioni che nell’ambito di una scienza in genere vengono annunciate
intorno a un noto universale e necessario, al fine o di determinarlo in tutti i
suoi modi o di ritrarre dalla sua qualificazione tutte le conseguenze lecite,
come quando diciamo che un mammifero non è eterotermo, non è chitinoso, non è
oviparo, non è anaerobio ecc., enunciando su di esso una serie di negazioni che
non possono certo trovare la loro ragione in una precedente posizione
apodittica, e contraddittoria per divenire o per molteplicità, in quanto nessun
mammifero darà mai a conoscersi come eterotermo o come chitinoso ecc.- Ora, a
guardar bene una negazione che scaturisce dalla posizione di un rapporto di
immanenza meramente possibile, gli atti del pensiero sono gli stessi di quelli
compiuti dinanzi a un rapporto di immanenza apodittico per il pensiero di
condizione umana, in quanto solo grazie al riscontro nel fenomenico di
intuizione sensoriale dell’assenza del dato immanente e della presenza di un
dato differente nelle medesime situazioni di tempo e sotto lo stesso punto di
vista, è lecito la transizione dialettica dal rapporto di immanenza posto alla
sua contraddittorietà con altro rapporto e da questa contraddizione alla verità
di questo e all’esclusione del primo; l’unica differenza che divide il
principio apodittico della negazione dal principio problematico, è costituita
dalla mera possibilità del primario rapporto di immanenza: perciò, Bergson
quando definisce la negazione come l’opposizione a una posizione
contraddittoria e falsa diacronicamente antecedente, pecca nella sua
definizione per parzialità, in quanto ignora due aspetti della negazione, l’uno
secondario, quello per cui la negazione non è opposizione, ma anche risposta,
l’altro fondamentale, quello per cui la negazione è opposizione non solo a un
apodittico ma anche a un problematico antecedente, e può divenire risposta ad
un’ipotesi solo in quanto preceduta da una posizione meramente problematica.
D’altra parte, se il pensiero fosse
costretto a procedere dialetticamente da una posizione anteriore a una
negazione successiva solo alla condizione che gli fossero offerte di fatto nel
dato di riscontro immanenze qualificate e contraddittorie, un buon numero di
negazioni di fatto presenti al pensiero e di fatto pensate e denominate, ossia
indicate con un loro
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