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segno, anche
positivo, non troverebbero ragion sufficiente e potrebbero essere giustificate
solo come altrettanti atti di creazione del pensiero di condizione umana: sia
dato, ad esempio, il caso di un rapporto di immanenza, verificatosi in un tempo
determinato e sotto il punto di vista di una sussunzione determinata; sarà
lecito escluderlo dalla sfera del pensato legittimo e procedere alla
formulazione negativa del giudizio categorico che lo indica solo quando nel
termine di immanenza, ossia nel concetto che ha funzione di soggetto nel giudizio,
in un differente tempo determinato o
sotto il punto di vista della medesima sussunzione, sia((??si??)) dia un
termine immanente, ossia un concetto destinato ad assumere nel giudizio
funzioni di predicato, altro dal primo; quando mutando l’istante o permanendo
la sussunzione, il termine immanente resti costantemente identico a se stesso,
mancano le ragioni sufficienti dell’esclusione del rapporto e della negazione
del giudizio, e quindi nel pensiero di condizione umana non devono esistere né
la esclusione del rapporto né il termine negativo indicativo di tale escluso né
la rappresentazione del noto sostitutivo dell’escluso né il termine negativo in
quanto indicativo del noto sostituente l’escluso; ma, di fatto, questi quattro
modi aventi a che fare con la conoscenza esistono proprio là dove non dovrebbero esserci - così, il concetto di
immortalità di un vivente fenomenico, che equivale all’esclusione del rapporto
di immanenza della cessazione della vita entro quel certo animale in quanto
appunto la parola immortale ne è il segno, e che inoltre rimanda alla posizione
del rapporto opposto di permanenza della vita entro l’animale considerato,
rapporto di cui il vocabolo immortalità è il segno indiretto, non dovrebbe
neppure esistere, in quanto l’immanenza di ciò che chiamiamo morte entro ciò
che chiamiamo vivente, una volta verificatasi, non viene sostituita nel
fenomenico vivente dal complesso sensoriale della vita in nessun altro istante
successivo e permane costante sia che si sussuma il vivente morto sotto il
genere della vita sia che lo si sussuma sotto il genere morte -.Eppure ciò si
verifica, e non fuori da ogni ragion sufficiente, secondo modi che lo
renderebbero affatto inintelligibile; infatti, poiché il rapporto di immanenza
in genere è una rappresentazione, un qualsiasi rapporto siffatto entra di
diritto sotto l’elaborazione della possibilità, e, come nel caso precedente in
cui erano dati due termini, una totalità e un parziale,
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di fatto non
relazionati da alcun rapporto di immanenza, il rapporto di immanenza era stato
affermato esistente e coesistente, in quanto esistente, al suo identico in
quanto inesistente, così ora, essendo dati la totalità come termine di
immanenza e il rapporto di immanenza, all’inesistenza dell’immanente viene
giustapposta l’esistenza di questo immanente, sia pur non determinatamente
qualificato; là la possibilità toccava al rapporto di immanenza di fatto, qui
la possibilità è estesa al rapporto di immanenza di diritto, lasciato tuttavia
indeterminato per ciò che riguarda la reale cognizione della qualità e del modo
di essere dell’immanente; come nel caso
precedente la possibilità dava
esistenza a uno degli antecedenti necessari della negazione, al rapporto
di immanenza la cui esclusione coincide
con la negazione, così nel caso attuale dà esistenza al secondo degli
antecedenti necessari della negazione, a quel rapporto di immanenza di diritto
che per questo suo modo pone se stesso di fatto e insieme comporta l’esclusione
del ((??nel??)) rapporto di immanenza eterogeneo che altrimenti sarebbe rimasto
unico di diritto e di fatto. Ha, perciò, ragione Kant quando afferma che ad un
qualsivoglia concetto si dà sempre in opposizione simmetrica il suo negativo,
ossia la sua esclusione da un rapporto di immanenza in cui funga da totalità
recettiva di certe sue note o da termine immanente in una totalità di cui esso
sia nota costitutiva; ma la sua ragione è completa alla condizione che sia ben
definito e delimitato questo carattere dell’universale negatività di qualunque
positivo -di cui egli si vale per offrire ragion sufficiente pel
concetto-limite in genere e per la nozione di noumeno in particolare -, che
cioè siffatto modo della negazione è affatto soggettivo come quello che ritrova
la propria ragione entro la sfera della possibilità, del pensato problematico,
non entro i limiti del pensato simmetrico del reale: tant’è vero che questo
secondo uso del possibile avviene quasi sempre sotto l’impulso di fattori
psichici sentimentali o affettivi, squisitamente soggettivi e relativi alla
condizione del conoscere umano.
In
conclusione, una descrizione completa della fenomenica della negazione dopo
aver rilevato che la negazione è la forma esteriore, indicativa ed enunciativa,
dell’esclusione dal pensiero legittimo di un rapporto di immanenza, come non
simmetrico e non riproduttivo dello stato di immanenza effettivo che si dà nel
fenomeno determinato da un certo istante
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e da una
certa sussunzione sotto un intelligibile determinato, è tenuto a stabilire che
la negazione, come esclusione di un rapporto siffatto, è l’atto ultimo di una
dialettica che o contrappone in situazione contraddittoria un rapporto di
immanenza di fatto a un rapporto di immanenza di diritto il quale assegna a sé
l’attributo di pensato legittimo e lo toglie all’altro, o contrappone in
situazione contraddittoria un rapporto di immanenza puramente possibile a un
rapporto di immanenza di fatto il quale dalla sua natura di fatto inferisce la
legittimità propria e l’illegittimità dell’altro, o contrappone in situazione
contraddittoria un rapporto di immanenza di fatto a un rapporto di immanenza di
diritto meramente possibile, il quale dalla sua natura di diritto trae, in una
sfera di pura possibilità però, la legittimità per sé e l’esclusione dal pensato
legittimo per l’altro, essendo la prima dialettica la condizione di una
contraddizione effettuale o per divenire o per molteplicità, essendo la seconda
dialettica uno dei modi che l’ipotesi può assumere, essendo la terza dialettica
una condizione contraddittoria meramente possibile che assegna al pensiero la
facoltà di estendere le sue rappresentazioni oltre i limiti dell’ontico
fenomenico.
Una
metafisica determinata secondo una struttura spinoziana, quando fonda il doppio
attributo che la costituisce della conoscibilità parziale del principio e della
predicabilità totale del fenomenico al principio sull’identità del principio
con la natura e sull’equivalenza quantitativa, ma non qualitativa della natura
al fenomenico, pone all’origine del suo discorso una proposizione negativa e
quindi una negazione, che tuttavia può situare in un ambiente cognitivo tale da
evitare l’aporia di un razionalismo indeterminato. La struttura spinoziana si
trova nella necessità di denotare il concetto di razionale se vuol rendere
intelligibile il suo unico canone metodico della razionalità del reale, di quel
reale che per essa è il primo ontico. La denotazione della razionalità è
un’operazione facile fin che si ha che fare con gli aspetti formali della
nozione, la determinazione dei quali, stabilita dal punto di vista della sua
natura logica, fa del razionale una specie della qualità, sia poi questa o
categoria o sussunto sotto una categoria; tutto ciò non è che la semplice
traduzione in termini di intelligibilità dell’identificazione dell’ontico primo con il razionale e della portata
qualitativa che questa identità assume; ma
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difficoltà
compaiono quando una metafisica spinoziana deve passare a denotare
materialmente la nozione di razionale, perché la conoscenza del razionale in
genere deve rifarsi per il suo contenuto materiale alle rappresentazioni la cui
connotazione comprende questo contenuto; e allora delle tre l’una: o al
pensiero umano è data immediatamente una rappresentazione del primo ontico
nella cui connotazione sia offerta un’area di razionalità la cui astrazione
costituirà la connotazione della nozione di razionale da predicarsi di diritto
al concetto di primo ontico, o il pensiero umano possiede immediata la
rappresentazione di un razionale in sé univoco rispetto al quale non si diano
differenze specifiche in nessuna zona del conosciuto, o il pensiero umano non
possiede nessuna di queste due rappresentazioni immediate e deve rifarsi al
fenomenico come all’unica fonte di conoscenza che gli sia data, per astrarne
nella sua purezza la definizione della razionalità. In tutti i casi resta certo
che il pensiero portatosi nella posizione di partenza di una metafisica
spinoziana è dovuto discendere dal giudizio, che aveva assunto come primo per
giustificare la coppia dei suoi attributi peculiari, “il reale è razionale” al
giudizio “il razionale è reale”, la cui differenza dall’altro sta tutta in
questo che esso segna le condizioni di intelligibilità del primo, vale a dire
la necessità che si determini quel che si deve intendere per razionale onde
divenga noto in che cosa il reale è razionale. Se si verificasse una delle due
prime possibilità il passaggio dal primo al secondo giudizio segnerebbe una sostituzione meramente formale che
renderebbe indifferente la funzione di soggetto o di predicato del concetto di
razionale, in quanto sarebbe garantita a priori l’identità della connotazione
di questo con la connotazione del reale primo ontico: la rappresentazione
immediata di questo farebbe del giudizio il risultato di un’analisi o di una
trasposizione dall’intuizione all’intellezione e garantirebbe l’inerenza del
predicato come parte nel tutto del soggetto e con ciò la legittimità della
predicazione e insieme dell’inversione delle funzioni, in quanto equivalente a
una denotazione materiale della razionalità rappresentata in sé e insieme
nell’ontico primo; così, l’univocità del razionale renderebbe superflua la
conoscenza diretta del principio ontico senza escludere che una certa
((??netta??))denotazione materiale del primo analiticamente rappresentata sia
di diritto affermata equivalente a un qualsiasi reale e quindi anche al reale
primo
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