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predicato si
riempie quando si determina secondo la determinazione che l’accompagna nel
concetto-soggetto - è questa l’interpretazione platonica, per la quale, dato X
è B, da X piove luce di conoscenza su B il quale solo attraverso X rivela, pel
tramite della nota specifica di X, quel che di determinato è capace di
aggiungere a sé e quel che di determinato è capace di attuare in sé onde
rendersi atto ad accogliere la determinazione aggiuntiva (la mammiferinità
aristotelica non si modifica quando si associa alla razionalità e resta con
questa quel che è con l’istintività,
mentre la mammiferinità platonica rivela la sua pienezza soltanto con la
razionalità sia perché solo in associazione con questa manifesta la sua
attitudine a siffatta unione sia perché solo se giustapposta alla razionalità
si dispone secondo modi che da un lato la rendono congruente con la
razionalità, e dall’altro non sono quelli che assume quando s’associa
all’istintività) -; ma queste soluzioni, aggiunte alla descrizione primaria del
giudizio categorico, non modificano l’essenza del giudizio che abbiam colto nel
primo esame, essere cioè il giudizio categorico la contemplazione di un tutto
composito in cui l’attenzione si sposta dal tutto a una parte componente; per
analoga sussunzione del giudizio categorico sotto il principio di ragione
agente sul diritto che uno dei due concetti ha di garantire esistenza, si porrà
la questione, ricca di molte altre che ne seguono come corollari, se
l’autonomia nell’esistere sia da darsi al concetto-soggetto o al concetto-predicato,
e si opterà per una delle due soluzioni, che la sostanzialità spetti
direttamente o indirettamente al concetto-soggetto o al concetto-predicato, ma
anche questo problema con le due sue soluzioni non intacca il nucleo del nostro
giudizio che resta ciò a cui la prima indagine lo aveva ridotto, una
scomposizione di un tutto in parti in forza di un atto di attenzione che gioca
tra il rilievo dato al tutto e il rilievo dato a una parte del tutto. Ora, in
questo atto non penetra la categoria di causalità, e il giudizio categorico
fuoriesce dalla sussunzione sotto di essa: infatti, il pensiero prende sì in
considerazione due esistenze, ma fonda la loro separazione non sulla loro
eterogeneità qualitativa, ma sull’eterogeneità degli atti di attenzione con cui le rileva e le apprende; con ciò si
trova dinanzi a una simultaneità di due esistenti i quali non sono
eterogenei in sé e in assoluto, ma solo
relativamente e per altro, per lo stesso pensiero che li pensa,
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come d’altra
parte dimostra il fatto che se si volessero erigere ad eterogenei essenziali
sarebbe necessario privare la connotazione dell’un concetto della connotazione
dell’altro con una sottrazione che, mentre consente la sussunzione del giudizio
sotto la categoria di causa, lo spoglia al tempo stesso di quel rapporto di
parte a tutto che costituisce la sua essenza; nel giudizio categorico manca
quell’eterogeneità di esistenze che è una delle condizioni che rendono
intelligibile una relazione di causa: per questo il pensiero sposta tranquillamente
un concetto con funzione di predicato da un giudizio categorico ad un altro
differente per il concetto-soggetto, senza temere per questo di offendere una
delle necessarie inferenze dalla categoria di causa, l’unicità della causa, e
insieme giustappone molti giudizi categorici a concetto-soggetto, identico e a concetto-predicato variato, certo di non
aver offeso il canone dell’unicità dell’effetto in funzione dell’unicità della
causa. Che se si vuol negare il diritto al pensiero di porre il giudizio categorico in nome dell’assurdo di
equiparare un uno a dei molteplici giustapposti, l’obiezione non colpisce soltanto la legittimità del giudizio, ma
anche la legittimità della pretesa di ridurlo a giudizio ipotetico e delle
operazioni trasformatrici cui il giudizio categorico vien sottoposto per fondare la pretesa. Il giudizio ipotetico,
poi, che si erige come substrato essenziale e assoluto di contro al giudizio
categorico, vede spostato e trasformato il punto di vista da cui il pensiero si
pone per conoscere il concetto-soggetto e il concetto-predicato: non son più un
tutto e una parte da contemplarsi secondo il rapporto in cui la prima si pone
col secondo al fine di rendere più completa la conoscenza di questo; son
divenuti due esistenti eterogenei in assoluto: se l’uno, il concetto totalità,
si è ridotto a una parte di se stesso che si contrappone al concetto-predicato
come a una parte altra dello stesso tutto e che si lega a questa con la
necessità di simultaneità nell’esistere con cui due eterogenei assoluti si
vincolano in un rapporto causale, il concetto-soggetto si è posto a causa del
concetto-predicato secondo un rapporto per cui la nota specifica del primo si
pone come ultima di una serie di determinazioni in simultaneità con la quale si
dà il generico del secondo come prima di una serie di determinazioni diverse;
ma in questo caso il concetto-soggetto del
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giudizio
categorico trova a suo principio causale non già il predicato ma l’intero
giudizio ipotetico, nel senso che onticamente l’ontico rappresentato dal
concetto-soggetto è eterogeneo simultaneo non dell’ontico riflesso dal
concetto-predicato, ma della simultaneità con cui coesistono gli ontici che son
pensati come soggetto e come predicato nel giudizio ipotetico; se il concetto-predicato
si è equi_ parato o ((??a??)) un intelligibile pensato però come nell’atto in
cui patisce la trasformazione da uno a molti e la conseguente dispersione in
una molteplicità di intelligibili di cui uno è il concetto-soggetto, il
rapporto causale vien capovolto e la disunione dell’intelligibile che nel
categorico è predicato diviene nell’ipotetico l’ultima di una serie di
determinazioni in simultaneità con la quale si pone l’intelligibile, già
soggetto del categorico e prima della nuova serie di determinazioni; in questo
caso allora il giudizio categorico ritrova il suo principio-causa non nel suo
concetto- predicato, ma nella simultaneità in cui la scissione di questo si dà
con il suo determinarsi secondo il concetto-soggetto, ossia ancora una volta
nel giudizio ipotetico. Si deve dunque concludere che un giudizio categorico
non è né una sostituzione relativa di un ipotetico né l’equivalente di un
ipotetico, in quanto tra categorico e ipotetico può tutt’al più passare il
rapporto che lega una conseguenza al suo principio: di fatto, tra i due
giudizi, nel caso che abbiano a fattori concetti identificabili, sta la
differenza di due dissimili punti di vista, l’uno dei quali coincide con la
contemplazione da parte del pensiero di due intelligibili eterogenei,
sussistenti oppure no in un solo tutto e quindi parti di un identico tutto o di
due totalità distinte: col primo punto di vista si coglie un’unica esistenza
nella sua staticità, col che resta ancor più dimostrato che il giudizio
categorico non è nel suo intimo per nulla fondato su un nesso di causalità, col
secondo punto di vista il nesso di causalità diviene il fondamento del rapporto
di predicazione, proprio perché si considerano due esistenze eterogenee e
necessariamente simultanee.Un giudizio categorico non può essere in alcun modo
ricondotto alla struttura di un ipotetico, appunto perché l’esistenza di per sé
non fa causa. Sarà consentito, previa
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dimostrazione
s’intende, affermare l’illegittimità del pensiero di situarsi sul duplice piano
del giudizio categorico e del giudizio ipotetico e dichiarare il primo un piano di mera soggettività, che nulla fa
conoscere dell’ontico intelligibile in sé; ma tale illegittimità fonda il
diritto di cassare tutti i giudizi categorici, non di elencarli sotto la classe
degli ipotetici: siffatto compito spetta ad un’interpretazione dei meccanismi
del conoscere e ad una dottrina del valore cognitivo dei loro prodotti; ad una
dottrina logica non resta che riconoscere al pensiero il diritto di intuirsi per
immediata riflessione e la necessità di distinguere le due classi di giudizi,
il categorico e l’ipotetico, come irriducibili.
Il giudizio disgiuntivo pare al primo
superficiale esame potersi ridurre a un modo della categoricità e o
dell’ipoteticità, sicché le sottoclassi del giudizio delle relazioni dovrebbero
ridursi a queste due ultime soltanto. A prima vista infatti il pensiero sembra
trovarsi a suo agio sia che la forma assunta dalla disgiunzione sia quella
della predicazione semplice sia che la disgiunzione assuma la forma della
consequenzialità necessaria: per il pensiero sarebbe indifferente affermare che
A è o B o C o D oppure che se A è, è o B o C o D, e quindi accogliere
l’enunciato sia come segno di una qualificazione del concetto-soggetto ad opera
del concetto-predicato sia come segno della necessità dell’esistenza del
concetto-predicato al darsi necessario dell’esistenza del concetto-soggetto.
Traccia di questa propensione del pensiero a ridurre la disgiunzione a una
sottoclasse della causalità si ritrova nel tutt’altro che chiaro discorso
dedicato da Kant alla giustificazione dell’inferenza della categoria di
comunanza dall’analisi di un giudizio disgiuntivo: Kant ci dice che il
contenuto complessivo di un giudizio disgiuntivo è la rappresentazione di una
totalità intelligibile suddivisa nelle parti intelligibili che la compongono e
che, prive come sono di un vicendevole rapporto di genere a specie o di
inerenza, debbono giudicarsi connesse vicendevolmente da coordinazione e non da
subordinazione, debbono cioè essere pensate nei loro rapporti reciproci come
sottoclassi di un’unica classe sovraordinata e non come l’una classe delle
altre: le sottoclassi, membri della divisione della classe,
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