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indifferente che l’intelligibile, infimo tra i tre, fosse una costante oppure una variabile; il che è
quanto appunto si verifica quando gli estremi considerati sono due
intelligibili in rapporto di sussunzione e il medio che li connette in
necessaria sussunzione è immediatamente oppur no sovraordinato al sussunto -
dati i tre concetti A B C in rapporto di sussunzione tale per cui A è classe di
B, B classe di C, qualora la ricognizione dell’inerenza di A in C venga
stabilita pel medio dell’inerenza di A in B e di B in C, è perfettamente
indifferente al pensiero che C sia un individuo determinato, una costante, o
che C sia uno degli individui della classe sottoordinata a B e ad A; dati A B C
nel rapporto suddetto, nel sillogismo che abbia B a medio (B è A, C è B, C è
A), la conoscenza resta ugualmente certa sia nel caso che C sia un totalmente
determinato e noto, sia nel caso che C
sia una variabile, determinata solo relativamente al fatto che le è
inerente B-; ma quando il rapporto dialettico fra i due concetti muta, quando
cioè a medio viene assunto l’intelligibile supremo fra i tre e dalla sua
inerenza in ciascuno dei due subordinati voglia inferirsi l’inerenza
dell’intelligibile onticamente medio nell’intelligibile infimo tra i tre, la
liceità dell’inferenza è legittima solo nel caso che l’intelligibile infimo sia
totalmente determinato e coincida con una rappresentazione nota nella sua
comprensione almeno per ciò che è necessario conoscere per stabilire la sua
sussunzione sotto entrambe le classi sovraordinate; in altre parole, il
sussumendo dev’essere una costante al pari degli altri due intelligibili, e non
una variabile, un concetto cioè di cui sia nota solo la denotazione ad opera
dell’intelligibile supremo; questo perché la determinazione della variabile in
vista della classificazione è una per ciò che riguarda il genere indirettamente
sovraordinato e altra per quel che riguarda il genere medio, a differenza del
caso precedente la sussunzione è in funzione di certi modi dell’intelligibile
infimo quando il sussuntore sia uno dei due generi, è in funzione di altri modi
se il sussuntore è l’altro dei due generi; sicché se è ignota la funzione per
la quale si stabilisce la
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sussunzione dell’intelligibile infimo sotto l’intelligibile
immediatamente sovraordinata ed è nota solo la funzione determinante l’altra
sussunzione - e in questo caso l’intelligibile infimo da costante si fa
variabile -, il discorso dialettico si fa inconcludente e privo di certezza; la
sola condizione che consentirebbe conclusione certa sarebbe offerta
dall’unicità della classe media, dal fatto cioè che il medio onticamente
intelligibile fosse l’unico che ha il diritto di porre come sottoclasse dell’un
intelligibile e come classe dell’altro; ma questa condizione non è mai data. Si
verifica allora che ogniqualvolta il pensiero voglia procedere a una dialettica
di tre concetti, tutti in ordine di subordinazione relativa, e voglia valersene
per stabilire il diritto di sussumere l’infimo al medio in forza della
sussunzione dell’infimo al sommo, se pretende di assumere l’intelligibile
infimo come una variabile, deve giustapporre al discorso primo tanti discorsi
analoghi quanti sono gli intelligibili onticamente medi, analoghi perché di
identica struttura, ma aventi a concetto onticamente medio una delle
sottoclassi mediane; deve, in altri termini giustapporre tanti sillogismi
quanti sono gli intelligibili onticamente
medi; e poiché la giustapposizione è accettazione di contraddittori, il
pensiero deve passare la giustapposizione sotto il segno della possibilità, che
è liceità operazionale - siano gli intelligibili in ordine di relativa
subordinazione A B C, sia D un cogenere di B e C un indeterminato relativamente
a B e a D e quindi una variabile della classe di A, l’unico modo di pensare in
connessione i quattro concetti è di giustapporre i due sillogismi come
equipollenti, B è A, C è A, C è B, D è A, C è D, C è A, e di porre il tutto
sotto il segno della possibilità, in quanto contraddittori -. L’insorgere di un
intelligibile noto in modo tale da poter essere identificato con la variabile e
insieme da dover essere tradotto da variabile a costante, elide la possibilità
o indirettamente, attraverso la struttura negativa di tutti i sillogismi ad
eccezione di uno, o direttamente attraverso la struttura positiva
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di uno fra i vari sillogismi. Ma questo secondo momento qui non
interessa. La giustapposizione problematica dei vari sillogismi è ciò che il
linguaggio traduce in un giudizio disgiuntivo: poiché un sillogismo non si
costruisce se non attraverso tre concetti e poiché la serie dei sillogismi
giustapposti si pone in forza della variabilità del concetto-soggetto in cui
tutti coincidono e in forza della
variabilità del concetto-predicato la cui determinazione è in funzione del
soggetto, si deve da tutto ciò arguire che il cosiddetto giudizio disgiuntivo
non solo non ha nulla che fare col giudizio ipotetico per la relazione di inerenza che ne è la struttura e col giudizio
categorico per l’indeterminatezza dell’inerenza uno dei cui termini è una
variabile, ma non è neppure un rigoroso
e perfetto giudizio a ragione dei tre concetti che lo compongono; se non si ha
il diritto di pensarlo come un modo della relazione categorica di inerenza, non
si ha neppure il diritto di classificarlo come giudizio in genere e come
giudizio di relazione in particolare.
Secondo la tradizione logica il giudizio categorico o predicativo
rispecchia nella più piena purezza il rapporto di predicazione concepito come
rapporto particolare di identità tra due concetti, il primo dei quali, il
soggetto, è riguardato come la totalità unitaria di molteplici intelligibili,
mentre il secondo, il predicato, è posto come uno tra questi intelligibili. Se
s’interpreta alla lettera l’identità tra il rapporto di predicazione del
giudizio categorico e il rapporto di identità in generale, si è costretti a
introdurre come tipico del rapporto di identità proprio del pensiero umano la
nozione di rapporto di identità parziale, inteso come nesso di equazione tra un
intelligibile in quanto parte di un
altro e il medesimo intelligibile concepito in sé: confesso che tale nozione mi
riesce alquanto confusa e notevolmente
priva di intelligibilità sia perché un’identità parziale è locuzione vuota di senso tanto sotto
l’aspetto qualitativo che sotto quello quantitativo, sia perché i due concetti
identificati dalla sedicente identità parziale non sono affatto un unico e
medesimo intelligibile riguardato sotto due punti di vista diversi bensì sono
due concetti differenti riguardati sotto l’unico punto di vista di uno solo tra
essi, sia perché il rapporto di predicazione in parola, intepretato come nesso
di identità, accoglie in sé un’identità
totale, ossia l’identità sic et simpliciter. Il principio della strana nozione
di identità parziale dovrebbe essere ricercato nella portata
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di identità assoluta e necessaria che si pretende abbia la copula in
un giudizio matematico, nell’identificazione cioè totale che si vuole stabilire
entro un giudizio matematico tra la copula e il segno di eguaglianza, e
nell’estensione di tale portata alla copula di qualsiasi altro giudizio; una
volta che si parta dalla formula “(è)=(=)”, se può sembrare legittimo
applicarlo ai giudizi matematici, non altrettanto può sembrare pei giudizi
qualitativi i cui concetti son dotati di comprensione differente e quindi
quantitativamente e qualitativamente inidentificabili, e allora per salvare il
diritto di applicare la formula si storce il concetto di identità,
attribuendogli la contraddittoria attitudine a lasciarsi determinare dalla
parzialità; si potrebbe anche giustificare l’estensione e quanto ne deriva con
l’osservazione che anche nel giudizio matematico la copula non è mai
qualitativamente riducibile al segno dell’eguaglianza, se il giudizio
matematico non fosse però tale da
ripudiare per postulato il punto di vista della qualità a favore esclusivo di
quello della quantità, in funzione del quale i concetti del giudizio sono
sempre totalmente e assolutamente identici. Nonostante l’insoddisfazione del
sedicente concetto di identità parziale, la sua presenza nel pensiero di
condizione umana serve a testimoniare da un lato la difficoltà che il pensiero
affronta quando s’accinge alla analisi formale di un giudizio categorico e alla
sua interpretazione alla luce dei grandi schematismi di ragione, dall’altro la
complessità di tale giudizio di cui le difficoltà son figlie e che sembrano
convergere tutte nella copula. Per giungere alla definizione formale di un
giudizio categorico conviene seguire due strade, l’esame della sua genesi,
l’indagine della sua struttura come rapporto statico tra due ontici
intelligibili statici. Premesso che quando qui parliamo di genesi ci portiamo
su di un piano acronico sul quale il moto generativo si attua senza interessare
il divenire storico della specie, e che su questo piano restiamo sorretti dal
postulato che la ragione di condizione umana
sia un ontico eternamente identico che è anche possibile non sia stato
posseduto e non sia posseduto in toto senza che per questo modificazioni vi si
verifichino, con la conseguenza che l’analisi diacronica risulta un inutile, si
pone la questione se la generazione del giudizio categorico divenga nota solo
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