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perché scompaia non già il senso di unità con cui la rappresentazione
s’è accompagnata, ma il modo della semplicità secondo cui l’unità era stata
sentita, il conosciuto resta uno ereditando dalla fase prima l’unità
permanente, ma da semplice indifferenziato si fa molteplice per differenze
qualitative, e l’unità trasferisce la sua base dalla indistinzione alla
sintesi. Il secondo atto che avvia la conoscenza di tipo umano è la
sostituzione non della pluralità
all’unità, ma della molteplicità differenziata alla omogeneità qualitativa: è
lecito affermare che su questo secondo piano si dia origine alla
relativizzazione della conoscenza, alla riduzione del conosciuto immediato e
vero per riproduzione assoluta dell’ontico in sé al conosciuto mediato di
verità soggettiva in forza della sostituzione all’essere del suo contenuto
disarticolato; e qualcosa di vero in questa affermazione c’è, se si pensa che dell’originario
sentimento pieno dell’unità null’altro resta se non il senso generalizzto di
un’unità che continua a sussistere
nonostante il frazionamento cui il conosciuto è andato soggetto; ma non bisogna
chiudere gli occhi sul fatto che il trasferimento al nuovo piano ha tolto
l’impressione dell’unità dalla condizione di assoluta ineffabilità in cui
giaceva, l’ha sottratta allo stato di solipsistica indifferenza in cui giaceva,
e con ciò ha aperto le porte alla
razionalità in quel che ha di più fertile che è meno un discorrere dall’ignoto
al noto che un tradurre il nebuloso avvertito in limpido consapevolmente
posseduto: la differenza tra i due stati la viviamo quando da un’affermazione
che vuol essere confusamente imprecisa
e genericamente delineatrice passiamo a una descrizione ricca di
determinazioni particolarizzatrici; qualcosa certo del primo modo è andato
perduto tanto più se esso si arricchiva di poesia, qualcosa tuttavia abbiamo
guadagnato, il primo e il secondo piano non sono due diversi cognitivi,
l’atteggiamento della intuizione
metafisica e indeformante e l’atto dell’analisi soggettivante e
alterante, sono piuttosto due contrari ontici, due modi di ontità completa cui
il soggetto conoscente partecipa, l’unità semplice omogeneamente qualificata e
la rottura in molteplci qualitativamente eterogenei ed equipollenti; che
nell’ontità i due modi si equilibrino è
indubbio se non altro perché nell’intimo della coscienza qualcosa dell’uno
finisce sempre per permanere nell’altro, trasbordandosi l’unità assoluta nel molteplice per garantirgli la
connessione
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nonostante il frazionamento, offrendo la pluralità variamente
qualificata la nota qualitativa dominante come essenza di base all’unità
omogeneamente qualificata; d’altra parte prova di questo condizionamento mutuo
dei due modi opposti, che certe metafisiche vogliono ignorare e ridurre ad
unità con l’elisione dell’uno, è l’insufficienza cognitiva di ciascuno dei due
isolatamente preso, essendo quanto mai incerto e dubitabile l’intuitivo preda
com’è degli impulsi e delle illusioni, dei pregiudizi e della relatività delle
visuali, essendo notevolmente sconvolgente l’altro, quello analitico, se non
ricorre costantemente al primo per ottenerne l’unità e la guida nella
determinazione dell’ordine logico dei molteplici eterogenei. Quando all’analisi
subentra la concentrazione dell’energia attentativa su ciascuna delle parti
sciolte e distinte, inizia l’operazione che necessariamente consegue alla
rottura dell’unità e che è destinata ad assumere duplice organamento, secondo
che voglia ottenere come risultato l’equilibrio tra i dati primamente offerti
alla conoscenza e la nuova situazione che la separazione della parte dal tutto
ha provocato in seguito allo spostarsi della luce dell’attenzione dal tutto
alla parte, oppure intenda offrire la parte, che si dà anch’essa come un’unità
semplice di intuizione percettiva, alla medesima trasposizione dall’unità
semplice all’unità per sintesi di molteplici eterogenei e successivamente alla
medesima disarticolazione: nel primo caso l’elaborazione fissa direttamente
come indissolubile il vincolo che connette la parte astratta all’unità, ormai
indeterminata e sottesa, del tutto composito e indirettamente come altrettanto
indissolubili i legami che uniscono la parte alle altre, essendo la natura del
vincolo e dei legami altrettanto indeterminata quanto lo è la natura dell’unità
sottesa; che poi questa natura indeterminata possa in seguito venir chiarita e
qualificata, questa liceità non tocca l’atto della connessione che si limita a
stabilire l’anello di congiunzione. Quest’operazione, se da un lato costituisce
una zona del terzo piano su cui la coscienza conoscente s’è portata, dall’altro
si pone come il nucleo essenziale di quella dialettica tra rappresentazioni in
generale che il giudizio categorico esprime e denuncia: un discorso
dell’attenzione cognitiva da una totalità unitaria, già semplice ed omogenea e
ora composita e qualitativamente
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molteplice, e una componente qualitativa scindibile e scissa dal tutto
in ragione della sua eterogeneità, discorso corrente sul legame vincolante la
parte all’unità sottesa al tutto introdotto fattiziamente per impedire che al
termine del gioco dialettico, quando il pensiero si trova sulla componente
eterogenea dopo aver abbandonato la rappresentazione della totalità sia pure
nella sua composizione, sia scomparsa l’unità originaria e sia tolta al
pensiero la liceità di ripercorrere a ritroso il discorso e di ritrovare al
punto di partenza un nulla, ossia una pluralità di eterogenei irrelati tra i
quali la parte privilegiata giaccia senza connessioni; che se questo fosse dato
il passo innanzi nel conoscere
risulterebbe una distruzione della condizione del conoscere di tipo
umano: forse in nessun altro gioco del
pensiero si manifesta con tanta evidenza il primato di quell’unità che di
solito è affermata condizione della ricerca razionale, e che invece è
condizione del conoscere in generale. L’operazione, dunque, è rilievo dato alla
parte, come ontico separabile e separato in sé, rilievo associato alla
conservazione assicurata alla parte della sua natura di parte pel medio del
vincolo che la lega all’unità sottesa al tutto: senza qui preoccuparci della
necessità o meno della copula per dar vita a una frase copulativa,- è evidente
che la frase copulativa non ha bisogno della copula, o bastando una particolare
modulazione di pronuncia del complesso fraseologico o aggiungendosi a questa
anche una certa posizione dei termini, il che però non mi pare abbia soverchio
peso a favore della definizione della copula, in quanto la sua funzione è
assunta dalla modulazione o dalla modulazione unita alla posizione dei termini
- e senza soffermarsi sulla questione del divenire della copula,
dell’assunzione cioè da parte del verbo essere della funzione copulativa -,
dobbiamo riconoscere che il giudizio categorico traduce in segni comunicabili
il complesso dell’operazione, servendosi di due termini categorematici per
ricondurre il pensiero con l’uno alla rappresentazione della totalità
disarticolata nella molteplicità eterogenea e sintetizzata dalla sottensione
dell’unità originaria, con l’altro alla rappresentazione della parte astratta
dal tutto in forza della sua disarticolazione, assumendo la copula o quel
qualsivoglia segno che le equivale
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a indice, diretto del nesso
organico che trattiene la parte ancorata alla unità sottesa, e indiretto dei
legami organici che la connettono agli altri eterogenei e che dell’una e degli
altri fanno un’individualità per organizzazione e non una giustapposizione per
identità di rapporto con qualcosa che è altro dai giustapposti: se si tien
presente che ciò che garantisce all’operazione discorsiva sicurezza di successo
è l’esistenza costante di un’unità che non viene meno per quante siano le
elaborazioni cui gli eterogenei componenti sono sottoposti, si capisce la
particolare funzione che viene
assegnata ai termini categorematici;
nell’atto in cui attraverso il gioco dialettico l’attenzione vien concentrata
sulla parte eterogenea, nel medesimo istante la medesima attenzione resta
ancorata sull’unità del tutto, la cui importanza è preponderante; poiché dei
due termini significativi di un giudizio, acquista funzioni di soggetto quello
che riporta il pensiero alla rappresentazione su cui l’attenzione cognitiva s’è
posata per primo e su cui ha mantenuto la sua presa più forte, il
categorematico indice della rappresentazione totalitaria e unitaria riceve le
funzioni di soggetto, mentre quelle di predicato vanno all’altro, avendo il
termine-predicato il compito di fermare il pensiero su una rappresentazione
isolabile ed isolata ma dipendente per un condizionamento qualsivoglia alla
rappresentazione offerta dal termine-soggetto. L’essenziale, dunque, del
giudizio categorico è il pensamento di una rappresentazione isolata connessa a
un’altra pure isolata pel medio di un vincolo di dipendenza condizionale che è
quello che s’instaura tra due ontici quando l’uno è una parte di un tutto
esistente necessariamente solo in connessione con l’unità del tutto e con
l’organizzazione delle parti che lo costituiscono. Da questa definizione è
lecito dedurre anzitutto l’errore dell’identificazione della copula con un
indice di identità: che [“ (è)= (=)”] non è vero, perché la connessione secondo
cui il pensiero unisce le due rappresentazioni non è per nulla quella
dell’identità, ma soltanto quella di una particolare loro connessione
esistenziale; a parte che si elimina così la necessità di introdurre
l’inintelligibile
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