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Giordano Bruno Cavagna
(n. 1921 - m.1966)
Metaf. class. e metaf. cristiana

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  • Prot. 101 -150
    • 107
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[pag.107 F 1]

perché scompaia non già il senso di unità con cui la rappresentazione s’è accompagnata, ma il modo della semplicità secondo cui l’unità era stata sentita, il conosciuto resta uno ereditando dalla fase prima l’unità permanente, ma da semplice indifferenziato si fa molteplice per differenze qualitative, e l’unità trasferisce la sua base dalla indistinzione alla sintesi. Il secondo atto che avvia la conoscenza di tipo umano è la sostituzione  non della pluralità all’unità, ma della molteplicità differenziata alla omogeneità qualitativa: è lecito affermare che su questo secondo piano si dia origine alla relativizzazione della conoscenza, alla riduzione del conosciuto immediato e vero per riproduzione assoluta dell’ontico in sé al conosciuto mediato di verità soggettiva in forza della sostituzione all’essere del suo contenuto disarticolato; e qualcosa di vero in questa affermazione  c’è, se si pensa che dell’originario sentimento pieno dell’unità null’altro resta se non il senso generalizzto di un’unità  che continua a sussistere nonostante il frazionamento cui il conosciuto è andato soggetto; ma non bisogna chiudere gli occhi sul fatto che il trasferimento al nuovo piano ha tolto l’impressione dell’unità dalla condizione di assoluta ineffabilità in cui giaceva, l’ha sottratta allo stato di solipsistica indifferenza in cui giaceva, e con ciò  ha aperto le porte alla razionalità in quel che ha di più fertile che è meno un discorrere dall’ignoto al noto che un tradurre il nebuloso avvertito in limpido consapevolmente posseduto: la differenza tra i due stati la viviamo quando da un’affermazione che vuol essere confusamente imprecisa  e genericamente delineatrice passiamo a una descrizione ricca di determinazioni particolarizzatrici; qualcosa certo del primo modo è andato perduto tanto più se esso si arricchiva di poesia, qualcosa tuttavia abbiamo guadagnato, il primo e il secondo piano non sono due diversi cognitivi, l’atteggiamento della intuizione  metafisica e indeformante e l’atto dell’analisi soggettivante e alterante, sono piuttosto due contrari ontici, due modi di ontità completa cui il soggetto conoscente partecipa, l’unità semplice omogeneamente qualificata e la rottura in molteplci qualitativamente eterogenei ed equipollenti; che nell’ontità  i due modi si equilibrino è indubbio se non altro perché nell’intimo della coscienza qualcosa dell’uno finisce sempre per permanere nell’altro, trasbordandosi l’unità assoluta  nel molteplice per garantirgli la connessione

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nonostante il frazionamento, offrendo la pluralità variamente qualificata la nota qualitativa dominante come essenza di base all’unità omogeneamente qualificata; d’altra parte prova di questo condizionamento mutuo dei due modi opposti, che certe metafisiche vogliono ignorare e ridurre ad unità con l’elisione dell’uno, è l’insufficienza cognitiva di ciascuno dei due isolatamente preso, essendo quanto mai incerto e dubitabile l’intuitivo preda com’è degli impulsi e delle illusioni, dei pregiudizi e della relatività delle visuali, essendo notevolmente sconvolgente l’altro, quello analitico, se non ricorre costantemente al primo per ottenerne l’unità e la guida nella determinazione dell’ordine logico dei molteplici eterogenei. Quando all’analisi subentra la concentrazione dell’energia attentativa su ciascuna delle parti sciolte e distinte, inizia l’operazione che necessariamente consegue alla rottura dell’unità e che è destinata ad assumere duplice organamento, secondo che voglia ottenere come risultato l’equilibrio tra i dati primamente offerti alla conoscenza e la nuova situazione che la separazione della parte dal tutto ha provocato in seguito allo spostarsi della luce dell’attenzione dal tutto alla parte, oppure intenda offrire la parte, che si anch’essa come un’unità semplice di intuizione percettiva, alla medesima trasposizione dall’unità semplice all’unità per sintesi di molteplici eterogenei e successivamente alla medesima disarticolazione: nel primo caso l’elaborazione fissa direttamente come indissolubile il vincolo che connette la parte astratta all’unità, ormai indeterminata e sottesa, del tutto composito e indirettamente come altrettanto indissolubili i legami che uniscono la parte alle altre, essendo la natura del vincolo e dei legami altrettanto indeterminata quanto lo è la natura dell’unità sottesa; che poi questa natura indeterminata possa in seguito venir chiarita e qualificata, questa liceità non tocca l’atto della connessione che si limita a stabilire l’anello di congiunzione. Quest’operazione, se da un lato costituisce una zona del terzo piano su cui la coscienza conoscente s’è portata, dall’altro si pone come il nucleo essenziale di quella dialettica tra rappresentazioni in generale che il giudizio categorico esprime e denuncia: un discorso dell’attenzione cognitiva da una totalità unitaria, già semplice ed omogenea e ora composita e qualitativamente

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molteplice, e una componente qualitativa scindibile e scissa dal tutto in ragione della sua eterogeneità, discorso corrente sul legame vincolante la parte all’unità sottesa al tutto introdotto fattiziamente per impedire che al termine del gioco dialettico, quando il pensiero si trova sulla componente eterogenea dopo aver abbandonato la rappresentazione della totalità sia pure nella sua composizione, sia scomparsa l’unità originaria e sia tolta al pensiero la liceità di ripercorrere a ritroso il discorso e di ritrovare al punto di partenza un nulla, ossia una pluralità di eterogenei irrelati tra i quali la parte privilegiata giaccia senza connessioni; che se questo fosse dato il passo innanzi nel conoscere  risulterebbe una distruzione della condizione del conoscere di tipo umano: forse  in nessun altro gioco del pensiero si manifesta con tanta evidenza il primato di quell’unità che di solito è affermata condizione della ricerca razionale, e che invece è condizione del conoscere in generale. L’operazione, dunque, è rilievo dato alla parte, come ontico separabile e separato in sé, rilievo associato alla conservazione assicurata alla parte della sua natura di parte pel medio del vincolo che la lega all’unità sottesa al tutto: senza qui preoccuparci della necessità o meno della copula per dar vita a una frase copulativa,- è evidente che la frase copulativa non ha bisogno della copula, o bastando una particolare modulazione di pronuncia del complesso fraseologico o aggiungendosi a questa anche una certa posizione dei termini, il che però non mi pare abbia soverchio peso a favore della definizione della copula, in quanto la sua funzione è assunta dalla modulazione o dalla modulazione unita alla posizione dei termini - e senza soffermarsi sulla questione del divenire della copula, dell’assunzione cioè da parte del verbo essere della funzione copulativa -, dobbiamo riconoscere che il giudizio categorico traduce in segni comunicabili il complesso dell’operazione, servendosi di due termini categorematici per ricondurre il pensiero con l’uno alla rappresentazione della totalità disarticolata nella molteplicità eterogenea e sintetizzata dalla sottensione dell’unità originaria, con l’altro alla rappresentazione della parte astratta dal tutto in forza della sua disarticolazione, assumendo la copula o quel qualsivoglia segno che le equivale

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 a indice, diretto del nesso organico che trattiene la parte ancorata alla unità sottesa, e indiretto dei legami organici che la connettono agli altri eterogenei e che dell’una e degli altri fanno un’individualità per organizzazione e non una giustapposizione per identità di rapporto con qualcosa che è altro dai giustapposti: se si tien presente che ciò che garantisce all’operazione discorsiva sicurezza di successo è l’esistenza costante di un’unità che non viene meno per quante siano le elaborazioni cui gli eterogenei componenti sono sottoposti, si capisce la particolare funzione che  viene assegnata  ai termini categorematici; nell’atto in cui attraverso il gioco dialettico l’attenzione vien concentrata sulla parte eterogenea, nel medesimo istante la medesima attenzione resta ancorata sull’unità del tutto, la cui importanza è preponderante; poiché dei due termini significativi di un giudizio, acquista funzioni di soggetto quello che riporta il pensiero alla rappresentazione su cui l’attenzione cognitiva s’è posata per primo e su cui ha mantenuto la sua presa più forte, il categorematico indice della rappresentazione totalitaria e unitaria riceve le funzioni di soggetto, mentre quelle di predicato vanno all’altro, avendo il termine-predicato il compito di fermare il pensiero su una rappresentazione isolabile ed isolata ma dipendente per un condizionamento qualsivoglia alla rappresentazione offerta dal termine-soggetto. L’essenziale, dunque, del giudizio categorico è il pensamento di una rappresentazione isolata connessa a un’altra pure isolata pel medio di un vincolo di dipendenza condizionale che è quello che s’instaura tra due ontici quando l’uno è una parte di un tutto esistente necessariamente solo in connessione con l’unità del tutto e con l’organizzazione delle parti che lo costituiscono. Da questa definizione è lecito dedurre anzitutto l’errore dell’identificazione della copula con un indice di identità: che [“ (è)= (=)”] non è vero, perché la connessione secondo cui il pensiero unisce le due rappresentazioni non è per nulla quella dell’identità, ma soltanto quella di una particolare loro connessione esistenziale; a parte che si elimina così la necessità di introdurre l’inintelligibile




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