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determinazione di identità parziale, risulta più chiara la ragione
della sussunzione di un giudizio categorico sotto il principio di identità:
come avrebbe dovuto far capire la struttura stessa del giudizio che è di
relazione, nel senso che l’unità delle rappresentazioni da esso significata non
sta già in un rapporto di confronto tra esse ma in un certo modo connettivo
secondo cui le loro esistenze sono pensate -per questo appunto è stato posto
nella classe dei giudizi della relazione -, l’ottemperanza al principio di
identità come condizione di cittadinanza razionale e intelligibile non è
richiesta al rapporto di identificazione qualitativa o quantitativa in cui le
rappresentazioni rapportate si pongono nel giudizio, ma al rapporto ontico in
cui il pensiero rapporta le rappresentazioni entro il giudizio: questo
rapporto, che si dà secondo il modo suddescritto, struttura un giudizio
categorico e ne fa un ente intelligibile, alla condizione che esso verifichi in
sé i modi generici della legge di identità, ossia in parole povere che esso
rimanga costantemente identico con se stesso e con ciò realizzi tutti gli
attributi impliciti in una identità con sé; sulla qual base sarà poi lecito
fare del giudizio categorico una determinazione del giudizio copulativo in
generale, affiancandogli come determinazione diversa il giudizio copulativo
empirico, o comunque lo si voglia chiamare, e distinguendolo da questo come
quello che si struttura su di un rapporto uno ed immutabile e non variabile e
contingente; con questa classificazione si rivela il reale imperio che il
principio di identità esercita su di un giudizio copulativo che sia categorico
ossia intelligibile. La medesima definizione può essere assunta come principio
per assegnare alle altre definizioni il ruolo di corollari e quindi per
garantire loro una migliore interpretazione: a) dire che il giudizio categorico
è l’espressione di un rapporto di sostanza e di inerenza significa concedergli
qualcosa di più e insieme negargli qualcosa di ciò che la nostra definizione
gli assicura: infatti, la nozione di sostanza e la concomitante nozione di
inerenza non sono dati primi del pensiero in quanto ritrovano la loro ragione
nel concetto di unità assoluta e semplice, e, d’altra parte, non esiste nessun
giudizio categorico il cui termine-soggetto rimandi a una rappresentazione a
cui con tutta certezza il pensiero riconosca di avere il diritto di predicare
l’attributo di sostanza, sicché sarebbe davvero strano definire una classe di ontici
con una ragione che non solo inerisce ad alcuni sussunti soltanto,
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ma che nessun sussunto è in grado di dimostrare sua parte - si obietta
che la sostanza è qui presa in senso metafisico e che solo sotto questo punto
di vista il nostro discorso è valido; se a sostanza si dà il senso logico di
ontità sottesa a una pluralità di eterogenei per garantir loro la sintesi, il
rapporto di sostanza ed inerente diviene proprio del giudizio categorico; ma
allora sostanza non è che un succedaneo dell’unità di cui sopra -; un modo
particolare della definizione sostanza-inerente, la definizione cioè che fa del
giudizio categorico l’espressione della convenienza di un attributo a un
soggetto, quantunque paia ricalcare l’inerenza della sostanza per quella
nozione di sostanzialità che si cela nel termine di soggetto e per quella
rappresentazione di incontro fattore di congiunzione di cui superficialmente si
colora il termine di convenienza, cela sotto di sé il già ripudiato concetto di
identità parziale pel valore di congruenza e accordo reciproco che acquistano
attributo e soggetto pel fatto che convengono l’uno all’altro; b) la
definizione, cui accede anche Kant, del giudizio categorico come espressione di
un’asserzione libera dalla problematicità e per conseguenza vuota di
condizionalità e di alternativa, anzitutto non è formalmente rigorosa perché è
articolata in due parti la seconda delle quali negativa e perché nella prima
parte affermativa, che dovrebbe essere la sfera effettivamente fertile di conoscenza,
circoscrive l’essenza del giudizio come sottoclasse dei giudizi della modalità
e con ciò analizza il rapporto fra il concetto e il predicato non per quel che
è in sé, ma per quel che è per la coscienza discorsiva, mentre con la parte
negativa ritrasporta la classificazione al tipo della relazione, limitandosi
però a stabilire quel che l’analizzato non è; poi attribuisce all’assertorietà e alla problematicità un
fondamento puramente linguistico, affermando segno dell’assertorietà la copula
sic et simpliciter e riempiendo di contenuto problematico l’ipoteticità del
condizionamento, non tenendo conto né del fatto che la terminologia adottata
per le nozioni intelligibili costitutive di una scienza usa la copula sic et
simpliciter là dove per rigore formale dovrebbe arricchirla delle locuzioni
proprie dell’apoditticità, con la conseguenza che tutti i giudizi apodittici
della matematica e delle scienze naturali sono della forma A è B [= A dev’esser
B] o se A è, è B [= se A è dev’esser B] o A è o B o C (= A dev’essere o A o B)]
e che il giudizio categorico in quanto intelligibile ha una copula che è di
forma assertoria, ma di funzione indicativa apodittica, né
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del fatto che il giudizio ipotetico e il giudizio disgiuntivo, ammesso
e non concesso che quest’ultimo sia giudizio, sono il primo per nulla problematico essendo l’eventuale
problematicità che vi compare una modalità di ciascuno dei due correlati e non
del loro rapporto consequenziale che è sempre apodittico - nel giudizio
ipotetico la copula dell’apodosi non è il segno del rapporto predicativo bensì
dell’essere del predicato, sicché la formula esplicita del medesimo dovrebbe
essere se A è, “ è “ che è B in cui la copula
virgolettata è sempre di funzione indicativa apodittica; che se si vuole
affermare che la prima copula è sempre in siffatto rapporto predicativo il
segno di una problematicità, si coglie un aspetto ontico del giudizio che però
non lede in nulla l’apoditticità dell’effettivo rapporto costituente il
giudizio; è cioè vero che [(se A è, è B) = (se A può essere, può essere B)],
nel senso che { [(se A è, è B) = (se A può essere, può essere B)]= [(se A è, è
B)= (se A non è, non è B)] }, ma la formula [(se A è, è B)= (se A può essere,
può essere B)] esplicitata nella sua struttura di rigore formale suona { [(se A
è, è (= deve essere) che B è] = [se A può essere, è (dev’essere) che B può
essere] } -, il secondo, se è proprio in quanto tutte le alternative sono
rappresentate dal pensiero, problematico per ciò che riguarda una delle determinazioni
in alternativa, apodittico nella determinazione di una delle determinazioni in
alternativa - la formula del giudizio disgiuntivo A è o B o C ha la copula di
forma assertoria; ma questa copula ha funzione indicativa problematica, se il
pensiero si rappresenta indeterminatamente la totalità delle sottoclassi della
classe del soggetto, essendo in questo caso che [(A è o B o C ) = (A può essere
o B o C)], ha invece funzione indicativa apodittica se il pensiero si pone dal punto di vista della sussunzione
reale del concetto-soggetto sotto una delle classi del predicato, essendo in
questo secondo caso che [(A è o B o C)= (A dev’essere o B (se non è C) o C (se
non è B)= (A dev’essere o non- B (se è C) o non -C (se è B)], sicché la
problematicità del disgiuntivo è un aspetto contingente e inintelligibile del
cosiddetto giudizio disgiuntivo, perché sussiste solo quando il pensiero o non
voglia o non possa portarsi sul punto di vista della necessaria sussunzione di
un intelligibile sotto i suoi generi -;
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c) la terza definizione infine, di marca aristotelica, che il giudizio
categorico è l’espressione di un rapporto bipolare tra due concetti, l’uno dei
quali fa conoscere, a lato della propria unità sottesa all’eterogeneità che lo
compone, l’autosufficienza della propria esistenza, il diritto cioè ad esistere
per ragioni che esso accoglie in se stesso, e insieme la partecipazione
all’esistenza dell’altro concetto, mentre questo pone con la propria
intelligibilità o rappresentazione completa del contenuto e dell’ordine della
sua comprensione l’intelligibilità dell’altro, riduce a ragione il giudizio
categorico ad espressione di due rapporti di ragione simultanei, a due moti
dialettici soddisfacenti un’esigenza di ragion sufficiente e attuantisi simultaneamente,
essendo la predicazione del concetto
-predicato al concetto-soggetto da un lato la determinazione del diritto di
esistenza del secondo e la deduzione da siffatto diritto del diritto ad
esistere del primo, dall’altro la determinazione del diritto di intelligibilità
del primo e la deduzione da siffatto diritto del diritto ad essere intelletto
del secondo: il giudizio categorico, quindi, è segno della rappresentazione di
due rapporti tra due concetti, il primo dei quali sussunto al secondo come conseguenza al suo principio-ragione se
a categoria di entrambi si assume il concetto dell’esistenza, il secondo dei
quali sussunto al primo in una medesima dipendenza di conseguente da principio
ragione quando la categoria di entrambi sia il concetto di intelligibilità -
per questa definizione, essendo X segno del concetto di esistenza od ontità, Y
segno del concetto di intelligibilità come rappresentazione del diritto di un
concetto ad essere concetto in funzione della conoscenza dell’universalità e
necessità di tutte le note delle rispettive connotazioni, i concetti A e B
avrebbero il diritto di assumere la struttura A è B quando A è principio di B
dal punto di vista di X e B principio di A dal punto di vista di Y, sicché la
formula del giudizio categorico A è B sarebbe il segno della simultaneità del
rapporto X C A C B e del rapporto Y C A C B; la formula del giudizio categorico
sarebbe allora
[[Nota del dattilografo: non capisco se si tratta di C o di
<,
e così pure nel rigo successivo]]
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