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Giordano Bruno Cavagna
(n. 1921 - m.1966)
Metaf. class. e metaf. cristiana

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  • Prot. 101 -150
    • 108
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[pag.108 F1]

determinazione di identità parziale, risulta più chiara la ragione della sussunzione di un giudizio categorico sotto il principio di identità: come avrebbe dovuto far capire la struttura stessa del giudizio che è di relazione, nel senso che l’unità delle rappresentazioni da esso significata non sta già in un rapporto di confronto tra esse ma in un certo modo connettivo secondo cui le loro esistenze sono pensate -per questo appunto è stato posto nella classe dei giudizi della relazione -, l’ottemperanza al principio di identità come condizione di cittadinanza razionale e intelligibile non è richiesta al rapporto di identificazione qualitativa o quantitativa in cui le rappresentazioni rapportate si pongono nel giudizio, ma al rapporto ontico in cui il pensiero rapporta le rappresentazioni entro il giudizio: questo rapporto, che si secondo il modo suddescritto, struttura un giudizio categorico e ne fa un ente intelligibile, alla condizione che esso verifichi in sé i modi generici della legge di identità, ossia in parole povere che esso rimanga costantemente identico con se stesso e con ciò realizzi tutti gli attributi impliciti in una identità con sé; sulla qual base sarà poi lecito fare del giudizio categorico una determinazione del giudizio copulativo in generale, affiancandogli come determinazione diversa il giudizio copulativo empirico, o comunque lo si voglia chiamare, e distinguendolo da questo come quello che si struttura su di un rapporto uno ed immutabile e non variabile e contingente; con questa classificazione si rivela il reale imperio che il principio di identità esercita su di un giudizio copulativo che sia categorico ossia intelligibile. La medesima definizione può essere assunta come principio per assegnare alle altre definizioni il ruolo di corollari e quindi per garantire loro una migliore interpretazione: a) dire che il giudizio categorico è l’espressione di un rapporto di sostanza e di inerenza significa concedergli qualcosa di più e insieme negargli qualcosa di ciò che la nostra definizione gli assicura: infatti, la nozione di sostanza e la concomitante nozione di inerenza non sono dati primi del pensiero in quanto ritrovano la loro ragione nel concetto di unità assoluta e semplice, e, d’altra parte, non esiste nessun giudizio categorico il cui termine-soggetto rimandi a una rappresentazione a cui con tutta certezza il pensiero riconosca di avere il diritto di predicare l’attributo di sostanza, sicché sarebbe davvero strano definire una classe di ontici con una ragione che non solo inerisce ad alcuni sussunti soltanto,

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ma che nessun sussunto è in grado di dimostrare sua parte - si obietta che la sostanza è qui presa in senso metafisico e che solo sotto questo punto di vista il nostro discorso è valido; se a sostanza si il senso logico di ontità sottesa a una pluralità di eterogenei per garantir loro la sintesi, il rapporto di sostanza ed inerente diviene proprio del giudizio categorico; ma allora sostanza non è che un succedaneo dell’unità di cui sopra -; un modo particolare della definizione sostanza-inerente, la definizione cioè che fa del giudizio categorico l’espressione della convenienza di un attributo a un soggetto, quantunque paia ricalcare l’inerenza della sostanza per quella nozione di sostanzialità che si cela nel termine di soggetto e per quella rappresentazione di incontro fattore di congiunzione di cui superficialmente si colora il termine di convenienza, cela sotto di sé il già ripudiato concetto di identità parziale pel valore di congruenza e accordo reciproco che acquistano attributo e soggetto pel fatto che convengono l’uno all’altro; b) la definizione, cui accede anche Kant, del giudizio categorico come espressione di un’asserzione libera dalla problematicità e per conseguenza vuota di condizionalità e di alternativa, anzitutto non è formalmente rigorosa perché è articolata in due parti la seconda delle quali negativa e perché nella prima parte affermativa, che dovrebbe essere la sfera effettivamente fertile di conoscenza, circoscrive l’essenza del giudizio come sottoclasse dei giudizi della modalità e con ciò analizza il rapporto fra il concetto e il predicato non per quel che è in sé, ma per quel che è per la coscienza discorsiva, mentre con la parte negativa ritrasporta la classificazione al tipo della relazione, limitandosi però a stabilire quel che l’analizzato non è; poi attribuisce  all’assertorietà e alla problematicità un fondamento puramente linguistico, affermando segno dell’assertorietà la copula sic et simpliciter e riempiendo di contenuto problematico l’ipoteticità del condizionamento, non tenendo conto né del fatto che la terminologia adottata per le nozioni intelligibili costitutive di una scienza usa la copula sic et simpliciter dove per rigore formale dovrebbe arricchirla delle locuzioni proprie dell’apoditticità, con la conseguenza che tutti i giudizi apodittici della matematica e delle scienze naturali sono della forma A è B [= A dev’esser B] o se A è, è B [= se A è dev’esser B] o A è o B o C (= A dev’essere o A o B)] e che il giudizio categorico in quanto intelligibile ha una copula che è di forma assertoria, ma di funzione indicativa apodittica, né

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del fatto che il giudizio ipotetico e il giudizio disgiuntivo, ammesso e non concesso che quest’ultimo sia giudizio, sono il primo  per nulla problematico essendo l’eventuale problematicità che vi compare una modalità di ciascuno dei due correlati e non del loro rapporto consequenziale che è sempre apodittico - nel giudizio ipotetico la copula dell’apodosi non è il segno del rapporto predicativo bensì dell’essere del predicato, sicché la formula esplicita del medesimo dovrebbe essere se A è, “ è “ che è B in cui la copula  virgolettata è sempre di funzione indicativa apodittica; che se si vuole affermare che la prima copula è sempre in siffatto rapporto predicativo il segno di una problematicità, si coglie un aspetto ontico del giudizio che però non lede in nulla l’apoditticità dell’effettivo rapporto costituente il giudizio; è cioè vero che [(se A è, è B) = (se A può essere, può essere B)], nel senso che { [(se A è, è B) = (se A può essere, può essere B)]= [(se A è, è B)= (se A non è, non è B)] }, ma la formula [(se A è, è B)= (se A può essere, può essere B)] esplicitata nella sua struttura di rigore formale suona { [(se A è, è (= deve essere) che B è] = [se A può essere, è (dev’essere) che B può essere] } -, il secondo, se è proprio in quanto tutte le alternative sono rappresentate dal pensiero, problematico per ciò che riguarda una delle determinazioni in alternativa, apodittico nella determinazione di una delle determinazioni in alternativa - la formula del giudizio disgiuntivo A è o B o C ha la copula di forma assertoria; ma questa copula ha funzione indicativa problematica, se il pensiero si rappresenta indeterminatamente la totalità delle sottoclassi della classe del soggetto, essendo in questo caso che [(A è o B o C ) = (A può essere o B o C)], ha invece funzione indicativa apodittica se il pensiero  si pone dal punto di vista della sussunzione reale del concetto-soggetto sotto una delle classi del predicato, essendo in questo secondo caso che [(A è o B o C)= (A dev’essere o B (se non è C) o C (se non è B)= (A dev’essere o non- B (se è C) o non -C (se è B)], sicché la problematicità del disgiuntivo è un aspetto contingente e inintelligibile del cosiddetto giudizio disgiuntivo, perché sussiste solo quando il pensiero o non voglia o non possa portarsi sul punto di vista della necessaria sussunzione di un intelligibile sotto i suoi generi -;

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c) la terza definizione infine, di marca aristotelica, che il giudizio categorico è l’espressione di un rapporto bipolare tra due concetti, l’uno dei quali fa conoscere, a lato della propria unità sottesa all’eterogeneità che lo compone, l’autosufficienza della propria esistenza, il diritto cioè ad esistere per ragioni che esso accoglie in se stesso, e insieme la partecipazione all’esistenza dell’altro concetto, mentre questo pone con la propria intelligibilità o rappresentazione completa del contenuto e dell’ordine della sua comprensione l’intelligibilità dell’altro, riduce a ragione il giudizio categorico ad espressione di due rapporti di ragione simultanei, a due moti dialettici soddisfacenti un’esigenza di ragion sufficiente e attuantisi simultaneamente, essendo  la predicazione del concetto -predicato al concetto-soggetto da un lato la determinazione del diritto di esistenza del secondo e la deduzione da siffatto diritto del diritto ad esistere del primo, dall’altro la determinazione del diritto di intelligibilità del primo e la deduzione da siffatto diritto del diritto ad essere intelletto del secondo: il giudizio categorico, quindi, è segno della rappresentazione di due rapporti tra due concetti, il primo dei quali sussunto al secondo  come conseguenza al suo principio-ragione se a categoria di entrambi si assume il concetto dell’esistenza, il secondo dei quali sussunto al primo in una medesima dipendenza di conseguente da principio ragione quando la categoria di entrambi sia il concetto di intelligibilità - per questa definizione, essendo X segno del concetto di esistenza od ontità, Y segno del concetto di intelligibilità come rappresentazione del diritto di un concetto ad essere concetto in funzione della conoscenza dell’universalità e necessità di tutte le note delle rispettive connotazioni, i concetti A e B avrebbero il diritto di assumere la struttura A è B quando A è principio di B dal punto di vista di X e B principio di A dal punto di vista di Y, sicché la formula del giudizio categorico A è B sarebbe il segno della simultaneità del rapporto X C A C B e del rapporto Y C A C B; la formula del giudizio categorico sarebbe allora

[[Nota del dattilografo: non capisco se si tratta di C o di <, e così pure nel rigo successivo]]




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