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la forma del giudizio, ma anche sia le deduzioni che da
essa il pensiero pretende inferire in
vista di un suo uso o utilizzazione nei confronti dell’ontico in sé da
conoscersi o da elaborarsi con l’azione, sia l’interpretazione analitica che di
siffatte deduzioni utilitarie il pensiero può dare; e poiché l’uso che di un
giudizio categorico ai fini della conoscenza dell’ontico in sé può essere quello di stabilire entro siffatto ontico quali degli ontici conosciuti siano reali
esistenti, essendo siffatto uso l’inferenza, ritenuta legittima, da una delle
conseguenze dedotte dal rapporto tra gli intelligibili del giudizio categorico,
Kant ritiene legittimo fare di esso l’essenza del giudizio stesso che vede
trasformarsi il proprio nucleo formale nelle conseguenze che ne possono
derivare; ciò facendo Kant si pone in congruenza con tutta la teoria medievale
della sostanza e attraverso essa con la definizione aristotelica del giudizio
categorico, attribuente al soggetto la funzione di principio di esistenza per
il predicato e al predicato la funzione di principio di intelligibilità per il
soggetto, e sostituente, nella delimitazione dell’essenza del giudizio stesso,
alla mera struttura formale, coi suoi principi, condizioni, modalità
immutabili e immodificabili, una delle
conseguenze che se ne possono inferire, quella appunto del primato del
soggetto sul predicato e quindi del rapporto di ragione esistenziale sul rapporto di ragione intelligibile in forza del valore di
principio che quel rapporto riveste nei
confronti di questo; quando Kant dice che il giudizio categorico è
l’espressione del rapporto tra due intelligibili l’uno dei quali è pensato come
un organo articolato entro l’organismo dell’altro e traente la propria
esistenza e il diritto alla propria
esistenza dall’autosussistenza di questo, e quando Aristotele dice che le
condizioni essenziali di un giudizio categorico sono il rapporto di principio a
conseguente che l’un intelligibile assume nei confronti dell’altro dal punto di
vista dell’esistenza di entrambi, il rapporto da principio a conseguenza tra il
secondo intelligibile e il primo dal punto di vista dell’intellezione che ((??di??)) tutti e due, il rapporto da
principio a conseguenza che deve intercorrere
tra il primo rapporto e il secondo
onde entrambi possano essere posti dal pensiero, tutt’ e due i pensatori
non fanno altro che in un primo momento prendere contatto con lo schema formale entro cui i due
intelligibili rapportati in un giudizio categorico debbono inserirsi con le
loro rispettive strutture materiali per legittimare il loro rapporto, con le
inferenze che il pensiero pretende di dedurre da tale schema al fine della
intellezione dei due intelligibili e al fine della conoscenza dell’ontico in sé
pel medio del rapporto stabilito, dal giudizio, con il primato attribuito
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dal pensiero stesso a quest’ultimo fin sul primo, con
tutte le peculiari delimitazioni che al giudizio il pensiero assegna onde
quest’ultimo primato sia assicurato, per poi procedere ad assegnare a queste
ultime delimitazioni la funzione di indici dell’essenza del giudizio
categorico; ma con ciò il pensiero deforma due volte il proprio ontico
contenuto, una prima volta quando immette nella definizione del giudizio lo
schema del rapporto con tutte le conseguenze e spoglia di prospettiva il primo
e le seconde affermandole coessenziali, una seconda volta quando si ripiega su
di sé e su quanto esso ha aggiunto allo schema originario per capovolgere la prospettiva
assegnando il primo piano a ciò che onticamente si dava sullo sfondo; in tal
modo, la funzione ontologica assunta da ciascun intelligibile diventa preminente su quella logica e il
rapporto costitutivo del giudizio vien definito nelle sue conseguenze e nelle
definizioni che le concernono, non nella sua essenza rispetto alla quale le
conseguenze possono essere non necessarie, ma soltanto presunte; si spiegano
così molti degli attributi che sono predicati come necessari al giudizio
categorico e che o sono contraddittori con aspetti essenziali di esso o
arricchiscono la sua comprensione di caratteri che non si ritrovano né impliciti né espliciti nella sua essenza
pura: a) secondo Kant, il giudizio categorico, guardato dal punto di vista
della modalità del rapporto che lo costituisce, è un giudizio assertorio, si
riduce cioè a un’asserzione o affermazione sic et simpliciter del rapporto, da
cui è costantemente estromessa la problematicità e in cui l’apoditticità ha la
liceità non la necessità di intervenire come denotante; questa assertorietà
uniforme e costante è la conseguenza genetica e il principio di ragione della
differenza che distingue il giudizio categorico dal giudizio disgiuntivo il cui
rapporto di predicazione è, indipendentemente dalla forma assertoria che di
solito assume, affetto dalla problematicità o dall’apoditticità a seconda che
la disgiunzione del predicato sia giudicata un conosciuto di fatto o un
conosciuto di fatto e di diritto, ossia a seconda che non sia data o sia data
la certezza della perfetta simmetria tra le rappresentazioni delle specie e gli
intelligibili in sé delle specie, e dal giudizio ipotetico, il cui rapporto di
predicazione, espresso dalla forma assertoria della copula, è sempre secondo il
modo dell’apoditticità: se un rapporto di disgiunzione è pensato come
l’interdipendenza condizionale che si
dà tra un intelligibile e un gruppo di intelligibili, quando il primo è
principio di esistenza di ciascuno degli altri come quello che con la propria
connotazione generica offre il substrato esistenziale a ciascuna delle differenze
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specifiche delle altre, e simultaneamente è conseguente,
in ordine all’esistenza, di ciascuno degli altri come quello la cui connotazione è garantita
nell’esistere dal fatto di essere immanente nella connotazione autosussistente
di quello, nel caso che sia lasciato indefinito siffatto rapporto attraverso
l’elisione dell’indicazione di un’ontologica relazione tra il primo
intelligibile e uno dei suoi rapportati, si dà necessariamente che la
predicazione della serie disgiunta di questi ultimi da un lato assume la nota
della problematicità ad indicare o che il rapporto è in generale lecito ad
essere pensato come quello che non è ontologicamente necessitato in nessuna
delle determinazioni che dal giudizio possono essere inferite, in nessuna cioè
delle relazioni definite che debbono essere date nell’ontico in sé tra il
genere e ciascuna delle specie, o che il rapporto è lecito per il pensiero di
condizione umana indipendentemente dalla sua simmetria con l’ontico in sé alla
condizione che tale liceità sia posta come equipollenza dell’essere con il non
essere, in quanto nulla garantisce che
ulteriori intelligibili disgiunti debbano essere coordinati a quelli già
espressi nel predicato, dall’altro assume la nota dell’apoditticità ad indicare
che, essendo la serie dei disgiunti in quanto rappresentati totalmente
simmetrica dei disgiunti in quanto ontici in sé, nell’ontico in sé è
necessariamente data una delle differenti relazioni, pena la falsità del
giudizio stesso; donde deriva che tra problematicità e nesso di azione e
reazione del giudizio disgiuntivo da un lato e tra apoditticità e identico
nesso dall’altro corre un rapporto di ragione che è dalle prime al secondo se
il rapporto è posto in vista dell’esistenza e del diritto ad esistere di
entrambi i correlati, è dal secondo alle prime
se il rapporto è posto in vista della loro intelligibilità, sicché tra i
due estremi si dà un rapporto da esprimersi in un giudizio categorico ed
apodittico, tale che la funzione di soggetto, assunta dalla rappresentazione
del nesso, e la funzione di predicato, assunta ora dal modo del problematico ora dal modo
dell’apodittico, corre un rapporto, da sostanza a inerente, donde deriva che il
problematico e l’apodittico non hanno il diritto di inerire((??unire??)) a
nessun altro nesso che non sia quello del giudizio disgiuntivo; poiché analogo
discorso può essere fatto intorno ai nessi degli intelligibili che entrano come
soggetto e come predicato in un giudizio ipotetico e intorno al modo della
apoditticità, e poiché da siffatto discorso deriva che i due sono soggetti e
predicato di un giudizio categorico apodittico, che vincola in condizionamento
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reciproco il nesso ipotetico e l’apoditticità, con la
conseguenza che l’apoditticità può essere solo attributo del primo, dalle
conclusioni dei due discorsi si ottiene che il giudizio categorico non può
essere né problematico né apodittico
come quello la cui comprensione è eterogenea dalle comprensioni del
giudizio disgiuntivo e del giudizio ipotetico, e che né la problematicità né
l’apoditticità, ma l’assertorietà soltanto sono denotazioni della connotazione
del giudizio categorico in forza dell’unità sostanziale che da un lato vincola
la prima e la seconda alle altre
denotanti delle loro legittime comprensioni, dall’altro connette
legittimamente la terza solo alle denotanti del giudizio categorico; a parte il
fatto che il nostro discorso ha modificato in parte il ragionamento kantiano
che vuole illegittimamente predicare al giudizio disgiuntivo la sola
problematicità e la apoditticità al solo ipotetico, con evidente ossequio alla
simmetria ed armonia dei giochi relazionali tra le nozioni formali - afferma
illegittima la predicazione perché
l’apoditticità del giudizio disgiuntivo è data al pensiero se non come dato di
fatto almeno come “ideale”, nel senso kantiano del termine, da perseguirsi in
sede di “ Ragione “ pel medio del polisillogismo disgiuntivo, e perché
l’apoditticità dello stesso giudizio dev’essere presupposta non appena si
attribuisca al giudizio in generale una pretesa di simmetria con l’ontico in sé
e al giudizio disgiuntivo in particolare l’essenza di rappresentare un rapporto
di azione e reazione che non può non essere ontico -, l’intero ragionamento non
soltanto sfocia in una contraddizione ma è tutto pervaso e fondato su di un
errore di surrezione che trova a suo principio la contraddizione stessa:
infatti, non appena il giudizio categorico viene assunto come oggetto di
analisi, deve essere posto come rappresentazione del pensiero di condizione
umana in quanto capace di darsi immagini che sono universali e necessarie; ora,
assunto come una rappresentazione siffatta, il giudizio categorico deve
manifestare il suo elemento fondamentale di essere un rapporto intelligibile,
ossia universale e necessario, tra intelligibili; dunque, il giudizio
categorico in quanto primo di un atto di analisi è denotato dall’universalità e
necessità, e quindi dev’essere apodittico; ma lo stesso ragionamento analitico conclude nella sua esclusiva assertorietà e
quindi nella
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