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l’essere di una modalità qualitativa, non è
mai congruente con la qualificazione del predicato, in quanto anche se lo si
sottopone a riduzioni qualitative sempre più profonde ed articolate,
l’attributo del suo esistere non potrà mai essere eguagliato a un qualsiasi
contenuto qualitativo omogeneo ai
restanti predicati e quindi assorbibile, per dir così, in un predicato
annullante il soggetto e il giudizio: nel giudizio categorico c’è dunque uno
squilibrio, un traboccare dell’equilibrio della bilancia ora a favore
dell’idealità o verità per identità e congruenza del predicato eternamente non
controbilanciata dalla mobilità del soggetto, squilibrio che lancia il pensiero
nella direzione in cui l’autotrascendersi del dato di fatto, del soggetto, è
avviata, verso la contemplazione di un mondo di idee “ vero”, scisso però
dall’esistente e dal reale, ora a favore dell’esistenza o trascendenza sul
pensiero e sull’ideale del soggetto eternamente non controbilanciato dalla qualificazione immutabile del predicato, equilibrio che sospinge il
pensiero nella direzione in cui
l’autotrascendersi del concetto ideale
è avviato, verso la contemplazione di immagini che nessun intelligibile
e quindi nessun pensiero autocosciente
si potrà mai dichiarare capace di esaurire estensivamente e comprensivamente;
in parole più semplici; la struttura relazionale del giudizio avvia da un lato
alla metafisica idealistica per l’esigenza di perfezione cognitiva data nel
predicato e non soddisfatta da nessun
soggetto, dall’altro alla metafisica oggettivo-fenomenica per l’esuberanza
ontica di cui il soggetto è ripieno e che nessun predicato potrà mai adeguare; 2) il pensiero,
separando, in vista del giudizio categorico che è la sua stessa essenza,
l’esistere del reale dalle qualificazioni che nel reale fan tutt’uno con il suo esistere, rompe
un’unità ontica e, consapevole della
conseguente inadeguatezza di sé come rappresentante per giudizi categorici dal
reale come rappresentato pel medio di tali giudizi, ne tenta il ripristino con l’analisi più profonda di tutti i
contenuti qualificativi, nello sforzo di costruire un sistema il più completo di intelligibili che si ponga a ragion
sufficiente dell’esistere e della validità dell’ontico; il tentativo è
tuttavia destinato a un inesauribile fallimento perché il
sistema degli intelligibili, o verità dell’ontico, non s’identificherà mai, per
quanto complesso e suddiviso in articolazioni
sempre più minute, con l’esistente ontico assoluto, e questo non
s’identificherà mai con le qualità,
anche universali e necessarie che lo
costituiscono; di qui deriva da un lato che il giudizio categorico si pone ad essenza e quindi a ragion
d’essere dell’esistere del pensiero e insieme a condizione della sua
inadeguatezza cognitiva all’ontico, dall’altro che lo stesso giudizio, in
quanto ha a sua essenza
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se non l’identità almeno la tendenza
all’identità del soggetto col predicato e del predicato col soggetto come a suo
limite, è un falso, una rappresentazione che non verificherà mai di diritto la
sua pretesa di rappresentare l’unità del reale, per il semplice fatto che non
realizzerà mai l’identità del suo predicato con il suo soggetto; volendo
annullare la distinzione tra soggetto e predicato per la quale si dà un’eterogeneità assoluta e ineliminabile tra i
due, volendo cioè rompere la distinzione
tra la classe degli ideali cui appartiene il predicato e la classe degli
esistenti cui appartiene il soggetto in modo che i due divengano conclassari e
quindi cogeneri e quindi riuniti da una relazione che invece di dividerli, li
unifichi in un solo atto di pensiero il
quale sia “vero” in quanto può assumere come predicato l’armonia, la concordia,
la congruenza, è necessario sostituire al categorico un giudizio ipotetico che esprima nel soggetto
l’esistenza del soggetto del categorico, col che i due giudizi si pongono come
totalmente equipollenti dal punto di vista
del loro soggetto, ed affermi nel predicato l’esistenza del predicato
del categorico, col che il giudizio ipotetico risulta più vero del
categorico come quello che fa del
predicato una qualificazione che viene all’esistere quando possa fondarsi sul
substrato dell’esistenza in sé del soggetto; donde ritorna a spuntare
l’insufficienza del pensiero che col nuovo giudizio ipotetico si trova dinanzi
a un soggetto la cui esistenza, in quanto trascendente la rappresentazione
dell’intelligibile soggetto a cui
l’abbiamo necessariamente ridotta, non ha a sua ragion sufficiente il mero darsi della rappresentazione del
soggetto e perciò s’appella a qualche altro esistente la cui rappresentazione
si erge a soggetto di un ipotetico che ha
a predicato il soggetto del primo e il cui soggetto si ripone come
predicato di un sovraordinato ipotetico, e così via all’infinito; poiché un
giudizio categorico non è mai un assoluto per la deficienza innata di unità
assoluta tra soggetto e predicato, esso cela sempre una implicita componente formale di condizionalità, consistente nell’incompiutezza del soggetto che
smarrisce nella sua identicazione
((??identificazione??)) con il
predicato ideale la sua autonomia
esistenziale e la va a cercare in un altro soggetto di cui si pone come
predicato; abbiamo di qui il diritto di completare il pensiero di Bradley
affermando che l’implicita ipoteticità del categorico, con la sua esigenza di
ripristinare la completezza
dell’esistenza trascendente l’intelligibilità attraverso il suo
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riferimento come predicato meramente intelligibile - un
soggetto che rinfreschi la sfocata nota dell’esistenza, rimanda al processo
polisillogistico per cui un predicato
riferito a un soggetto esige di ritrovar la garanzia della legittima sua immanenza nel soggetto,
in un nuovo rapporto di immanenza tra sé e un soggetto che sia predicato del
primo, soggetto che pretenderà di verificare
la propria natura media di
datore di esistenza al primo
predicato e di immanente nel primo
soggetto, attraverso la propria immanenza
in un terzo soggetto, che riproporrà nei propri confronti le stesse
esigenze e così via in un processo all’infinito: per questo siam partiti con
l’affermare che Bradley non fa che sviluppare una delle conseguenze della
teoria aristotelica; ora, nei tre discorsi di Aristotele, di Kant, di Bradley,
c’è qualcosa che lascia perplessi; tralasciamo certe incongruenze tra la
dottrina logica e la dottrina gnoseologica sia in Aristotele per il quale o il meccanismo dell’intelletto passivo ed
attivo genera in atto il concetto della
percezione individuale, e in questo caso non si vede la necessità che un
giudizio categorico debba essere conclusione
di un sillogismo e questo debba essere episillogismo di un polisillogismo sia che il giudizio
categorico abbia a soggetto il concetto della specie infima sia che abbia a
soggetto un qualsivoglia genere di specie infima, oppure tutti i giudizi
categorici, tanto che abbiano a soggetto una specie infima quanto che si
valgano come soggetto di un genere,
debbono essere conclusioni ultime di un
sillogismo e quindi di un
polisillogismo, e in questo caso il
meccanismo dei due intelletti deve fornire un’intuizione soltanto parziale del’intelligibile delle
percezioni individuali, un’intuizione
se non altro spoglia delle articolazioni con cui le denotanti si unificano entro il concetto, sia in Kant,
per il quale o è data l’attività meccanicamente uniforme della categoria di sostanza intervenente su
un gruppo di sensazioni ad unificarle in una cosa o percezione individuale o su
un gruppo di sensazioni interne, immagini di sensazioni esterne, per inserire
se stessa come ulteriore componente del gruppo, rendendo questo un
intelligibile sussumibile sotto il concetto di sostanza e il rapporto tra esso
e ciascuna sua componente un intelligibile sussunto sotto il concetto di
sostanza-inerente, e allora non si vede la necessità del polisillogismo a
garantire la verità di un giudizio categorico che sia conclusione ultima o
conclusione intermedia, o si dà questa
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necessità, e in questo caso non si vede in che cosa
effettivamente consista la meccanica attività unificatrice della categoria di
sostanza, dal momento che non lascia
trasparire di sé neppure quel segno tanto immediato che dovrebbe essere la
necessità e quindi legittimità del rapporto tra soggetto e predicato; e così
mettiamo da parte altri aspetti che nel polisillogismo, teleologicamente
ordinato secondo i modi asseriti dal kantismo aristotelico o bradleyano,
appaiono strani, ad esempio I) che il polisillogismo, se dovesse veramente
servire a garantire l’immanenza di un predicato in un soggetto, vedrebbe
limitata questa funzione ad alcune
denotazioni del soggetto, e non a tutte, precisamente a quelle cui è lecito
darsi immanenti nella specie-soggetto e in tutti i generi sovraordinati e che
quindi sono ridotte alle denotazioni del genere sommo che è categoria
dell’essenza generica della specie, con la conseguenza che si potrà costruire
un polisillogismo sul giudizio Socrate è mortale, o Socrate è diveniente o
Socrate è teleologico ecc., ma non si potrà costruire un polisillogismo
altrettanto valido su giudizi del tipo Socrate è razionale o Socrate è viviparo
o il viviparo è omotermo, II) che, se si vuol conchiudere il processo
all’infinito del polisillogismo con una definizione, non si vede come il
polisillogismo continui a conservare il proprio valore dal momento che la
conclusione dell’episillogismo infimo diventa un caso particolare della
definizione stessa, con la conseguenza che o la conclusione in parola è
veramente insufficiente a se stessa per la propria validità e il nostro
polisillogismo diventa un circolo vizioso o una petizione di principio data la identità tra premessa
maggiore del prosillogismo primo e la
conclusione dell’episillogismo infimo, o la definizione è, in uno o altro modo,
vera di per sé, ma allora doveva esserlo anche la conclusione; l’aspetto però
che suscita in me maggiore perplessità è il fatto che i tre continuano ad
asserire che un polisillogismo è un processo aperto all’infinito e io non riesco a pensare un polisillogismo
se non come un processo necessariamente finito
e conchiuso in se stesso, entro cui il pensiero non può non trascorrere
dialetticamente tra un prosillogismo che è sempre primo o tutt’al più per
ignoranza umana si pone come episillogismo di un certo e ben preciso numero di
prosillogismi sovraordinati, ed un episillogismo infimo: cercherò di esporre con
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