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la più minuziosa precisione
le rappresentazioni che il mio pensiero si è dato quando ha appreso la teoria
kantiano-aristotelica del giudizio categorico convalidato da un sillogismo, a
sua volta convalidato da un prosillogismo erigente la concatenazione in un
polisillogismo che dovrebbe essere al suo estremo sommo aperto all’infinito: la
prima decisione da prendersi riguarda il valore rappresentativo dell’enunciato
di un giudizio categorico qualsivoglia, ossia il reale momento della dialettica
del pensiero fissato e contraddistinto da due termini S e P posti nella
relazione da soggetto a predicato e vincolati oppur no dalla copula “ è”; non
si tratta, come vorrebbe qualche logico, di trovare la struttura
linguistico-verbale uniforme e univoca alla quale tutte le possibili strutture
linguistico-verbali in cui una parola è riferita a un’altra come un P ad un S
sono ricondotte come al loro equivalente, perché questo modo di impostare la
questione continua ad identificare la forma logica di una dialettica di
pensiero con la forma verbale della sua espressione e surrettiziamente
reintroduce quel rapporto da primario a secondario tra l’espressione della
forma logico-dialettica del pensiero e la forma stessa, che necessariamente e
di fatto elide quando per decidere della comune natura dei giudizi categorici
deve oltrepassare il velo della parola per toccare direttamente la relazione
tra le rappresentazioni; che il giudizio, ossia la dialettica tra
rappresentazioni alla quale una certa serie di parole rimanda, non sia una
sussunzione e quindi non riguardi la denotazione delle due rappresentazioni, è
affermazione difficilmente sostenibile, perché, se per sussunzione è da
intendersi il rapporto di ragione in cui due rappresentati vengon posti
relativamente l’uno all’altro quando l’uno attende dall’altro la
giustificazione del proprio esistere e del proprio modo di esistere in quanto
rappresentazione il cui esistere e il cui modo di esistere son posti come
necessari dall’esistere e dal modo di esistere del primo, è certo che la forma
di rapportazione tra due rappresentati che si chiama giudizio attribuisce all’uno
dei rappresentati il compito di fare
della propria esistenza e del proprio modo di esistere nel pensiero l’origine e
quindi la ragione del necessario esistere e del necessario modo di esistere nel
pensiero dell’altro, con le conseguenze che questo si pone in un rapporto di
sussunzione rispetto al primo e la sua ontità, corposamente immaginata per
metafora, dev’essere proiettata entro lo spazio in un rapporto di
sottordinazione o sottoposizione all’immagine corposa dell’ontità dell’altro, e
che, se la sussunzione è il modo di relazionarsi di due rappresentati di cui il
sussunto
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è pensato entro l’area dell’estensione del sussumente,
il secondo è parte dell’estensione del primo ed è un costituente della sua
denotazione; l’obiezione di qualche logico che la predicazione della
rappresentazione di una qualità sensoriale esterna alla rappresentazione di un
percepito esterno non può essere ridotta alla sottoordinazione o sussunzione di
questa sotto la rappresentazione di tutte le percezioni aventi siffatta qualità
sensoriale esterna, o perché con il predicato vien pensato solo la qualità e
non la sua inerenza a una percezione in generale o perché in nessun altra
percezione la qualità si ripete nello stesso modo in cui è conosciuta entro la
percezione considerata, ignora che la predicazione è posta tra due universali o
meglio, se si vuole, tra due pretesi o ipotetici universali e che il rapporto
di cui la predicazione è segno stabilisce appunto quella conseguenza necessaria
dell’esistere e del modo di esistere della percezione in ciò che si pretende
abbia di necessario e universale in certe condizioni dall’esistere e dal modo
di esistere della qualità, rappresentata in sé e astrattamente da ogni
percezione in genere, in ciò che si pretende abbia di necessario e di
universale nelle stesse condizioni, conseguenza che chiamiamo sussunzione ed è
partecipazione all’estensione e alla denotazione della rappresentazione
predicata; parimenti la pretesa che il rapporto del giudizio categorico sia la
rappresentazione dell’immanenza della rappresentazione del predicato nella
rappresentazione del soggetto ed escluda qualsiasi altra rappresentazione nel
pensiero, qualora intenda alludere all’unità assoluta dei due rappresentati
entro un unico atto di pensiero il quale sarebbe la trasposizione a livello
intelligibile dell’assoluta unità di tempo e di luogo degli intuiti
corrispondenti ai rappresentati, ignora che l’unità assoluta, intesa come equo
valore di tutte le componenti dell’unica rappresentazione contemplate nella loro
unificazione entro questa, esclude
qualsiasi rilievo dato ad una o a più o a tutte le componenti in quanto
distinte dalle altre e dal tutto cui appartengono e che compongono e, con ciò,
impedisce al pensiero quella distinzione fra il tutto e le parti che consente la dialettica dal primo alle
seconde e dalle seconde al primo - il pensamento di una collezione di distinti
attraverso l’unità che li colleziona, se non s’accompagna a un rilievo dato a
uno o a più o a tutti i distinti, è contemplazione di un uno tutto che perde il
senso e il valore della collezione per
presentarsi come una unicità semplice su cui il pensiero deve fermarsi
staticamente senza riuscire a spostare la sua energia attentiva su di un altro eterogeneo
che non gli
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è dato -, mentre, qualora faccia di quella
rappresentazione di immanenza il risultato di un rilievo privilegiato
attribuito ad una certa rappresentazione immanente nella totalità dell’altra
rappresentazione e, per conseguenza,
ammetta quella distinzione fra il tutto e la parte che consente la dialettica
dall’uno all’altra e dall’altra all’uno, ignora che le condizioni di
legittimità della dialettica, ossia l’universalità e necessità del tutto, della
parte, dell’immanenza della parte nel tutto, comportano che la relazione
reciproca dei due non si limiti al riconoscimento dell’inerenza sic et
simpliciter, ma imponga al pensiero di assumere la rappresentazione parziale,
in qualità universale e necessaria, come genesi e ragione della necessità
dell’esistere e del modo di esistere, in quanto universali e necessari, della
rappresentazione della totalità, e, per ciò, ignora che l’immanenza
s’accompagna sempre a una sussunzione e a una partecipazione del tutto
all’estensione e denotazione dell’immanente; quest’ultimo concetto del giudizio
come forma logica esclusivamente
costituita da una comprensione la ritroviamo nel concetto del giudizio come
forma logica di un’identità parziale: la definizione del giudizio come identità
parziale tenta di superare lo scoglio in cui la riduzione del giudizio a mera
comprensione va ad urtare, ossia l’impossibilità di una dialettica da giudizio
a giudizio una volta circoncluso il
rapporto del predicato al soggetto entro una relazione assoluta di immanenza di
quello in questo, introducendo a fianco dei due rappresentati in predicazione
la rappresentazione del pensato entro cui i due immangono, sicché ogni giudizio
categorico sarebbe la rappresentazione dell’identità del rapporto di immanenza
del soggetto nel tutto di cui è costitutivo e del rapporto di immanenza del
predicato nello stesso tutto, la quale interpretazione del giudizio, a parte
che non riesce a rendere conto della struttura di quei giudizi categorici che
hanno a soggetto la rappresentazione di una percezione, ignora, al pari di
quella della comprensione, l’ufficio di intelligibilità del predicato, sia che
pretenda che il predicato sia pensato come immanente nel tutto in cui è
immanente il soggetto, nel qual caso la pretesa e malamente espressa identità
parziale sarebbe equivalenza di due o comprensioni o estensioni, sia che
pretenda che il predicato sia pensato come immanente nel soggetto a sua volta pensato immanente nel suo tutto, nel
qual caso si avrebbe l’equivalenza o
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di una comprensione con un’estensione o di due
estensioni differenti; d’altra parte, una spiegazione della forma logica del
giudizio categorico che riduca la struttura della relazione esclusivamente al
rapporto di sussunzione tra predicato e
soggetto e spieghi il loro rapporto come la rappresentazione del primo in
quanto contenente nella propria estensione
il secondo, si lascia sfuggire la rappresentazione dell’estensione in
generale, la rappresentazione del diritto in generale per cui un rappresentato
si pone con una estensione e una denotazione, e la rappresentazione in
particolare del principio o ragione per la quale un soggetto di un giudizio
categorico dev’essere pensato nell’estensione o denotazione del suo predicato:
anzitutto quando si parla dell’estensione di una rappresentazione intelligibile,
viene spontanea l’immagine di un centro di luce o piuttosto di ontico
qualitativo universale e necessario da cui scaturisce un cono o triangolo di
illuminazione o meglio di qualificazione universale e necessaria entro cui
vanno a sistemarsi un numero più o meno grande di altre rappresentazioni che
sono pervase, in seguito a ciò, da una luce o qualità identica a quella che
tipizza l’intelligibile della cui estensione si parla; ma, poiché il pensiero
ha che fa ((??fare??)) con rappresentazioni di totalità unitarie ontiche intelligibili e non con
rappresentazioni di sfere qualificative che tutt’ al più sono rappresentazioni
di rapporti, il giacere o contenimento degli intelligibili entro l’estensione
di un altro è la rappresentazione della presenza di questo entro ciascuno di
tutti gli altri; in secondo luogo, quando a un intelligibile viene attribuita
una estensione, l’estensione diviene per l’intelligibile un fatto che si dà di
diritto solo se esso verifica i modi logici che debbono essere pensati perché
più intelligibili entrino
nell’estensione di un altro, appunto la presenza di esso entro la
totalità di ciascuno dei vari intelligibili, con la conseguenza che la
rappresentazione di un intelligibile in sé accompagnata dalla rappresentazione
dello stesso intelligibile in quanto però immanente nella comprensione di ciascuno di altri intelligibili più o meno
numerosi è la condizione che dev’essere verificata perché esso intelligibile
venga dotato di un’estensione entro cui si contengono gli altri, e quindi il
principio necessario che fonda di
diritto le pretese di esso intelligibile a contenere nella propria estensione
gli altri; infine, perché un intelligibile sia legittimamente relazionato ad un
altro secondo il rapporto da soggetto a predicato di un giudizio categorico
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