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ostinarsi a ripudiare come principio della predicazione
in un giudizio categorico il rapporto tra le comprensioni dei due correlati; se
si ha ben presente che la genesi e il fondamento del giudizio categorico stanno
nel rapporto di immanenza in cui l’intelligibile del predicato è pensato nella
comprensione del soggetto, ci si rende conto che il rapporto di predicazione è
funzione determinante della quantificazione sia del predicato che del soggetto
e che il ruolo assunto dal predicato come denotazione inerente alla
comprensione del soggetto è funzione determinante del modo di quantificazione
del predicato e del soggetto; infatti, posti due intelligibili in un rapporto
di predicazione categorica sul fondamento dell’inerenza dell’uno nell’altro, se
l’inerente-predicato è denotazione assolutamente specifica, nel senso che
compaia come nota solo nella
comprensione del soggetto e degli intelligibili sotto questo sussunti la
quantità del soggetto e la quantità del predicato sono entrambe universali,
mentre, se l’inerente-predicato è denotazione generica, nel senso che compare
come nota della comprensione di intelligibili che sono altri dal soggetto e dai
suoi sussunti, la quantità del soggetto e quella del predicato sono
rispettivamente universale e particolare; se l’inerente-predicato è una
denotazione generico-specifica rappresentata entro la comprensione di un
intelligibile cui già inerisca la nota generica pensata nella comprensione del
predicato - ad es. nei giudizi
particolari che siano inferenze immediate di giudizi universali aventi a
predicato la loro denotazione generica -, la predicazione assegna al soggetto
la quantità particolare e al predicato la quantità universale; se
l’inerente-predicato è una denotazione generico-specifica rappresentata
immanente nella comprensione di un intelligibile già denotata solo dallo
specifico del predicato, le quantità del soggetto e del predicato risultano
entrambe particolari; se
l’inerente-predicato ha una comprensione nessuna nota della quale compare nella
comprensione del soggetto, il giudizio negativo che ne risulta attribuisce al
soggetto e al predicato quantità universale; se l’inerente-predicato ha come
sua comprensione una nota o generica o specifica rappresentata però nei
rapporti necessari che la vincolano rispettivamente al suo specifico o al suo
generico, la predicazione risulta negativa se nella comprensione del soggetto
mancano rispettivamente il generico o lo specifico del predicato, e assegna al
soggetto e al predicato una quantità rispettivamente
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totale e parziale nel caso che il predicato sia il
generico come necessariamente affetto da tutti i suoi specifici, una
quantitativa ((??))rspettivamente parziale e totale nel caso che il predicato
esprima uno specifico, una quantità particolare nel caso che il predicato
esprima il generico come necessariamente affetto dagli specifici eterogenei
dallo specifico del soggetto - diamo per chiarezza otto esempi: per S è P con
quantità di S e P totale, “l’uomo è ragionevole “ e “l’uomo non è autotrofo “ o
“ l’uomo non è scimmia”; per S è P con quantità totale di S e parziale di P,
“l’uomo è mammifero “ e “ l’uomo non è il mammifero “; per S è P con quantità
parziale di S e totale di P, “ qualche mammifero è uomo” e “ qualche mammifero
non è umano “; per S è P con quantità parziale di S e di P, “ qualche razionale
è uomo “ e “ qualche uomo non è qualcuno dei mammiferi “-; di fronte a queste
mie osservazioni, che evidentemente si rifanno alla classificazione di
Hamilton, cade l’affermazione che il predicato sia quantificato universalmente
dai giudizi negativi e parzialmente dai
giudizi affermativi, e d’altra parte non vedo in che cosa i vari casi offendano
una struttura ontica degli intelligibili in sé o il primato della qualità sulla
quantità, in quanto tutti i casi considerati son il frutto di un’analisi qualificativa di intelligibili onticamente pensati; quel
che interessa piuttosto è considerare le conseguenze di una dottrina del
giudizio la quale gli restituisca il primato della rapportazione delle
comprensioni sulla relazione delle estensioni: le differenti considerazioni che
debbono farsi della quantità del soggetto e del predicato non fanno che mettere
in rilievo alcune delle conseguenze che derivano ai termini di un giudizio dal
fatto che la predicazione dell’uno all’altro consiste essenzialmente nella
concentrazione di energia attentiva su una o più note della comprensione del
termine soggetto analiticamente scomposta: a seconda che la denotazione
rilevata sia o generica o specifica o generica specificamente definita la
quantità dei termini riceve l’una o l’altra delle sue modalità; ora, il primato
che nella predicazione del giudizio categorico assume il rapporto delle
comprensioni dei due termini se da un lato avvia a concepire la predicazione
anzitutto come inerenza del predicato
nel soggetto in quanto nota denotante una comprensione, dall’altro rivela che
il pensiero non è totalmente libero nell’astrazione della nota dalla sua
comprensione ma deve tener conto del
nesso necessario da cui la nota è legata alle altre, con la conseguenza che la
posizione del predicato come intelligibile a se stante è sempre un aspetto più
apparente che reale, un fenomeno della forma
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linguistico-verbale del giudizio che uno stato reale
dell’intelligibile corrispondente il quale nel pensiero conserva inalterata al
di sotto della sua astrazione l’apodittica relazione che l’unifica al resto
della comprensione del soggetto; mai, forse, come nella discrezione in cui
sembrano porsi le parole del giudizio risulta la fallacia del linguaggio;
l’evidenza di ciò si dà quando si passi ad analizzare la nozione di
distribuzione: la distribuzione è il rapporto in cui l’intelligibile generico è
pensato con ciascuno degli intelligibili che son da esso denotati e che
costituiscono la sua estensione, rapporto che dev’essere da parte a tutto, da
denotazione in sé a denotazione immanente nell’unità della sua comprensione;
essa dunque non è altro che la rappresentazione che il pensiero si dà di un
generico in quanto nota immanente nella comprensione di ciascuno degli
intelligibili che lo comprendono; un intelligibile generico se rappresentato
nella sua distribuzione è distribuito, se rappresentato indipendentemente dalla
sua distribuzione si dice indistribuito; il termine-parola indice
dell’intelligibile distribuito si dice distributivo, il termine indice
dell’intelligibile indistribuito si dice collettivo; le cose di fatto non sono
così semplici: in primo luogo, la distinzione
tra il valore distributivo e il
valore collettivo di una medesima parola è limitata alla sfera del linguaggio e
non penetra nella sfera della conoscenza per intelligibili; in secondo luogo,
la distinzione fra generici distribuiti e generici indistribuiti non è stato
presente in atto nella dialettica del pensiero, in quanto non si dà generico che sia rappresentato in questo suo valore e
con questa sua funzione che al tempo stesso non venga rappresentato come nota
inerente alla comprensione di ciascuno dei sussunti della sua estensione; ogni
generico in quanto generico si dà al
pensiero secondo la sua distribuzione;
ma, in quanto il rapporto di immanenza di una nota nella sua comprensione è
simultaneamente connessione apodittica della nota con le altre in forza di un
vincolo tra la prima e le seconde che non è meramente formale ma investe la loro rispettiva materia, al
rapporto di immanenza è lecito
associarsi con la totalità dei modi materiali che alla nota derivano da tutti i
nessi con tutte le note con cui si vincola in ciascuna delle comprensioni
sussunte, oppure è lecito associarsi con una parte sola dei modi materiali
secondo cui la nota dev’essere pensata in funzione di uno solo o di alcuni
soltanto fra i nessi con le altre note delle varie comprensioni; si ha quindi
il diritto di parlare non dell’esistenza o
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inesistenza di una distribuzione, ma di due
distribuzioni diverse, una distribuzione assoluta e una distribuzione relativa dello stesso concetto generico; la
definizione di questa o quella fra le due è apoditticamente posta dal rapporto
predicativo: se il predicato è una nota rappresentata nella comprensione del
soggetto secondo tutti i modi con cui le restanti note del soggetto ne
affettano la materia, il che si dà quando il predicato è nota generica della
comprensione del soggetto, il soggetto è assolutamente distribuito, ma non lo è
il predicato in quanto note, altre da quelle della comprensione del soggetto,
ne stabiliscono in altro modo la materia; se il predicato è una nota del
soggetto che riceve la sua modalità qualitativa solo dalle restanti note della
comprensione del soggetto, il che si dà quando il predicato è lo specifico del
generico del soggetto, si ha la distribuzione assoluta del soggetto e del
predicato; se il predicato è una nota che trae il suo essere qualitativo solo
dalla denotazione generico-specifica del soggetto, la distribuzione assoluta si
dà solo per il predicato, non per il soggetto la cui denotazione
generico-specifica si vincola a note
che sono altre da quella del predicato; e così via; ora, la definizione dell’assolutezza o relatività della
distribuzione di un intelligibile, che è fatto eminentemente qualitativo, fonda
la definizione della quantità dello stesso intelligibile di cui rivela il
sostrato qualitativo; d’altro canto, il primato assegnato al rapporto delle
comprensioni dei termini dei giudizi permette di rendersi conto di tutte le implicanze del principio primo del sillogismo, il
cosiddetto dictum de omni et nullo; Aristotele lo enuncia in vari modi: “Quando
un intelligibile sia predicato ad un altro come a un soggetto, tutto quanto si
dice sul predicato, sarà detto anche sul soggetto (Cat., 1 b. 10 sgg.)”; “
l’essere un intelligibile nella totalità di un intelligibile altro da esso e
l’essere l’un intelligibile predicato alla totalità dell’altro sono la stessa
cosa; ma diciamo che si dà la predicazione alla totalità, quando non sia dato
cogliere alcuno degli intelligibili del soggetto del quale non possa esser detto l’altro intelligibile;
lo stesso vale se diciamo che non si dà la predicazione a nulla (di un
soggetto)” (An. Pr. 24 b 26 sgg.); “
Quando tre termini stanno fra loro in modo che l’ultimo sia nella totalità del
medio e il medio sia o non sia nella totalità del primo, necessariamente gli
estremi costituiscono un sillogismo perfetto “(An. Pr. 25 b 32 sgg.);
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