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ogniqualvolta
si pretenda valersene per la conoscenza di quell'ontico in sé che il dato
pretende riprodurre:da questo punto di vista le strutture formali della
razionalità del pensiero acquistano una latitudine che è inferiore e al tempo
stesso superiore a quella che la valutazione dei Greci e di quanti l'hanno
assunta pari pari le ha concesso.
Per Greci e grecizzanti ontico razionale e
razionalità di condizione umana sono identiche o meglio equivalenti, in quanto
l'ontico in sé attua senza discorso e quindi acronicamente i rapporti che il
pensiero verifica diacronicamente e discorsivamente, con la conseguenza che
nessuna dialettica del pensiero diventa valida qualora instauri forme che non
riescono poi ad essere ritrovate nelle rappresentazioni dell'ontico in sé, e al
tempo stesso tutto ciò che la dialettica umana attua si erige a modulo e a
nozione a priori di ciò che l'ontico in sé è e deve essere: sotto questo
criterio la descrizione delle forme del pensiero si riduce a una sorta di
riduzione dell'ontico in sé all'ontico per il pensiero e viceversa, a un
arbitrario disegno di schemi ottenuto con la limitazione dei meccanismi che il
pensiero ha la liceità di costruire a quelli tollerati dall'ontico in sé e con
l'identificazione dell'ontico in sé a quanto si ritrova entro siffatta
circoscrizione. E' quanto è capitato
alla logica del giudizio categorico e delle forme derivate: da un lato, con
Aristotele, si è preteso tradurre l'effettivo rapporto formale tra predicato e
soggetto al rapporto tra due ontici intelligibili, discreti e ciascuno
autosufficiente nel proprio ambito e
nella propria autonomia, il primo dei quali racchiude entro la propria
estensione il soggetto, lo sussume sotto di sé e lo investe con la propria
intelligibilità, il secondo dei quali gode di esistenza di per sé e trasferisce
tale attributo al predicato per la funzione di parte immanente che questo
riveste nei confronti della totalità cui appartiene; donde si arguisce che
nessun giudizio categorico sia legittimo quando il suo soggetto non è la
rappresentazione di un ontico in sé cui l'autonoma esistenza spetta di diritto
o direttamente o indirettamente, con la conseguenza che di un notevole numero
di giudizi categorici ci si disinteressa quasi non fossero dati al pensiero pel
semplice fatto che non sono congruenti col principio della definizione formale
che dovrebbero verificare, e ci si arroga il diritto di valersi dei giudizi
categorici che sono stati costruiti con perfetta osservanza della loro
definizione formale per interpretare apriori l'ontico in sé alcune delle cui
rappresentazioni sono da essi utilizzate; così ad esempio, il giudizio "il
triangolo è rettangolo" è, per una logica aristotelica, un falso più per
il fatto che attribuisce al termine del soggetto quella funzione di principio
di esistenza che per definizione appartiene al termine del predicato che per il
fatto che dà una distribuzione arbitraria
del soggetto, e il giudizio "Socrate è sostanza " acquista una
portata fondamentale perché fra tutte le rappresentazioni riproduttive
dell'ontico in sé Socrate è la più adatta ad assumere la funzione di principio
di esistenza che un soggetto di giudizio categorico deve avere;dall'altro lato,
dal punto di vista kantiano, il giudizio categorico è la relazione assertoria
fra due intelligibili, che,
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non essendo
nel reciproco condizionamento apodittico da causa ad effetto né nel reciproco
condizionamento problematico da indeterminato generico a lecito e non
necessario determinato speciale, coesistono fuori da ogni condizionamento
reciproco in quella particolare struttura che l'unitaria coesistenza
sostanziale di molteplici in cui nessuna apoditticità è data al coesistere al
di là di quel che il coesistere stesso pone: a parte le inevitabili aporie di
questo modo di vedere che, mentre non tiene conto della differenza tra un
giudizio categorico a predicato accidentale o contingente e un giudizio
categorico a predicato necessario o essenziale, insiste nel distinguere la
intelligibilità della successione causale dalla fenomenicità della simultaneità
sostanziale dopo averle rinnegate entrambe con la riduzione di tutti gli
elementi ontici a sensazioni, il giudizio categorico in quanto univocamente ed
esclusivamente assertorio si rivela come la risultante di un lavoro che da un
lato è di riduzione di tutti gli schemi di predicazione categorica leciti al
pensiero umano allo schema di quel rapporto fra una rappresentazione e il tutto
di cui fa parte che è posto e attuato dalla percezione ossia dall'unità
ingiustificata e inintelligibile di più sensazioni in una totalità
infrazionabile nelle sue parti, e dall'altro è di erezione dello schema
prescelto a modello o falsariga di tutte le interpretazioni che apriori debbono
essere date della razionalità dell'ontico in sé, il quale dovrà considerarsi
dotato di unità sostanziale solo negli individui conosciuti con le percezioni,
che il linguaggio della teoria comune chiama cose o oggetti, e ricco di unità
organica solo grazie ai rapporti causali e concettuali che vincolano
rispettivamente gli individui e le loro essenze; non c'è da meravigliarsi
quindi se un giudizio del tipo "il triangolo ha gli angoli
supplementari" è per Kant falso quando pretenda affermare l'immanenza
necessaria della nota della supplementarità dei tre angoli nella totalità di
quell'ontico intelligibile che è il triangolo e vero solo quando si limita ad
asserire che in qualunque sfera rappresentativa, o empirica o
immaginativa-pura, tre dati fenomenici semplici quali tre segmenti inseriti nei
rapporti spaziali che chiamiamo triangolo verificano un rapporto spaziale che è
uguale a quello di un angolo piatto diviso da due semirette che s'incontrino su
di un punto della retta per formarvi un angolo uguale a uno degli angoli del
triangolo -nella quale descrizione non è chi non vede che l'assertorietà
dell"è uguale" è meramente verbale e di fatto e di diritto è un velo
celante l'apoditticità imposta dall'universalità e necessità della forma
spaziale -, e se un giudizio del tipo " il mondo è finito " è sempre
per Kant falso quando pretenda asserire l'esistenza di un'entità individuale non
percettiva, qual è il mondo; e vero solo per un pensiero capace di generare
artificiali unità percettive -donde viene la necessità di andare a cercare
nella coscienza un modo di razionalità che sappia non solo accettare ma
generare i soggetti per i giudizi -.
Quel che Kant giustamente ha rilevato nel
giudizio categorico è il rapporto di immanenza che costantemente s'instaura tra
predicato e soggetto, la natura di nota
che il predicato ha sempre nei confronti della connotazione del soggetto;
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ma subito dopo
ha voluto abbandonare l'indagine del pensiero umano nella sua purezza per
adattare anzitutto questo stesso pensiero a una certa visione dei suoi
contenuti, ridotti tutti a sensazione, a dato sensoriale. Nulla impedisce di
pensare che nel pensiero non sia lecito ritrovare nulla che prima non sia stato
trovato nei sensi, ma questo criterio deve valere anzitutto per il pensiero
stesso: non dev'essere lecito ritrovare nelle forme, nei modi, nei discorsi,
nelle strutture che col loro insieme costituiscono il pensiero di condizione
umana nulla di più e nulla di meno di quel che ritroviamo nei dati intuitivi
che abbiamo di tali modi, di tali forme, di tali discorsi, di tali strutture.
E' vero che il giudizio categorico instaura
fra soggetto e predicato un rapporto che è da connotazione a nota denotante, ma
è altrettanto vero che questa relazione è un caso particolare e derivato
dall'operazione generale e costante che il pensiero di condizione umana esprime
nelle forme verbali del giudizio categorico: ogniqualvolta il pensiero assume
una rappresentazione, la tratta come una totalità unitaria ma articolata o
articolabile in rappresentazioni componenti e parziali, opera la
disarticolazione o frettolosamente e quindi incompiutamente o con grande cura e
con l'intento di dirompere l'unità nella serie completa degli eterogenei
costitutivi, fissa la sua energia attentiva su una o più di queste componenti
nell'intento di acquistare una più approfondita chiarezza e cognizione del
tutto mediante il gioco dialettico dell'attenzione che di continuo si sposta
dall'unità onnicomprensiva della rappresentazione unitaria alla componente
disarticolata e insieme lasciata entro il tutto cui appartiene, allora esprime
questo suo dinamismo con un giudizio categorico il cui soggetto è la totalità e
il cui predicato è la parte rilevata dalla luce che vi getta su l'energia
attentiva su di essa concentrata; il linguaggio tradisce notevolmente l'esatto
stato del pensiero perché traduce in separazione preliminare e in successiva
riunificazione una semplice disarticolazione di un tutto già articolato, o
meglio perché sostituisce una serie, sia pur convergente ((comagente??)), di
molti atti eterogenei, l'eterogeneità tra soggetto e predicato, la loro
discrezione, la loro correlazione di tutto a parte, la conoscenza simultanea
dei due come dei separati e insieme come l'uno immanente nell'altro, all'atto
unico di una luce attentiva che mentre tiene sotto il fascio un'intera
cognizione simultaneamente concentra una parte di sé su di una porzione
dell'intero e con tale atto riesce in un solo istante a conservare l'integrità
dell'intero, a diromperla in tutte o in alcune o in una sola delle parti, a
fissarsi su di una o più di queste e quindi a pensare la cognizione come
quell'unità totale e indistinta quale prima si dava e come quell'uno
determinato in modo particolare quale ora si dà; che il linguaggio sia un
meraviglioso sussidiario in questo, in quanto cristallizza l'operato e il
prodotto del lavoro altrimenti labili, in quanto li tramanda alla memoria, in
quanto sorregge il pensiero in quella secondo operazione che è l'astrazione,
nessuno intende negare; ma questi meriti non debbono indurre a sostituire
all'esatta e pura dialettica del pensiero le modificazioni e gli adattamenti che
vi apporta la lingua.
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