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Nella sua purezza formale un giudizio
categorico è la dialettica dell'attenzione da una cognizione totale alla
cognizione di una parte del tutto nel tutto.
Quest'operazione trascina seco alcuni modi
nuovi di interpretare e valutare le due cognizioni su cui l'attenzione si è
posata: in primo luogo che il noto parziale, il predicato dell'espressione
verbale del giudizio, è parte del tutto e come tale gli appartiene, sicché se
per un qualsiasi motivo venga astratto e pensato di per sé come un tutto su cui
si opera una dialettica analoga alla precedente, non per questo esso e le sue
parti cessano di appartenere al tutto in cui son state rilevate; in secondo
luogo che il noto parziale o predicato del giudizio offre certamente un
arricchimento della conoscenza del tutto cui appartiene senza che per altro
questo suo apporto debba essere interpretato come una facoltà attiva, in quanto
la funzione di intelligenza che esso esplica è per dir così meccanicamente
conseguente alla sua appartenenza al tutto, sicché è arbitrario caricarlo di
una potenza o energia intelligibile che si scaricherebbe entro l'ambito del
soggetto; in terzo luogo che, se è evidente che il noto parziale o predicato,
una volta astratto dal tutto cui appartiene, gode di una pensabilità il cui
diritto è da inferirsi dalla pensabilità del tutto, in primo luogo questa
pensabilità è sì un'esistenza e un diritto ad esistere ma nell'ambito e in
relazione al pensiero, è dunque un'esistenza relativa, e il suo diritto è un
diritto che il pensiero ((che??)) ricava dai suoi modi di essere e dalle
condizioni del suo operare, in secondo luogo la stessa pensabilità non è per
nulla un'azione, una funzione attiva esplicata per dir così dalla
rappresentazione totale sulla sua porzione, ma la semplice conseguenza
dell'appartenenza di questa a quella.
Se tra la verità formale e la verità
materiale del nostro pensare si inserisce una perfetta identità, saremmo
senz'altro costretti a concludere che qualsivoglia rappresentazione
riproduttiva dell'ontico in sé e strutturata nei modi in cui deve trovarsi un
noto per farsi soggetto di un giudizio categorico deve necessariamente esser
principio di un giudizio categorico in cui le sue componenti debbon far da
predicato, e, per converso, che qualsiasi giudizio categorico deve
esclusivamente riprodurre uno stato dell'ontico in sé i cui modi sono
perfettamente riprodotti dal giudizio: se cioè il pensiero fosse condizionato
ad assumere univocamente come totalità unitaria da disarticolare in predicati
la rappresentazione che corrisponde a un ontico in sé che è un tutto di cui
altri ontici in sé sono parti, dovremmo ritrovare nel pensiero solo giudizi
categorici che a soggetto han preso rappresentazioni di siffatti ontici e
saremmo certi che qualunque inferenza dell'ontico in sé dal giudizio sarebbe
fondata; solo in questo caso la definizione formale del giudizio categorico
verrebbe sostanzialmente a coincidere o con quella aristotelica o con quella
kantiana, e sarebbe assicurato che gli unici giudizi categorici alberganti nel
pensiero hanno a loro soggetto una percezione individuale o una
rappresentazione predicabile di queste e che tutte le modalità del giudizio
categorico sono altrettanti principi di interpretazione e conoscenza
dell'ontico in sé.
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Ma alcune considerazioni ci spingono a fare
una netta distinzione fra le due definizioni e a conservare solo quella
formale. Consideriamo i tre concetti "uomo, presidente della Repubblica,
Segni ": per la definizione aristotelica del giudizio categorico come di
rapporto fra un concetto-soggetto che con la propria esistenza fonda
l'esistenza del predicato e un concetto-predicato che con la rappresentazione
delle sue note dà intelligibilità al soggetto grazie alla propria immanenza
nella connotazione di questo, dovrebbe essere consentito un unico giudizio in
cui il concetto specie infima è soggetto e uno degli altri due predicato;
eppure io intendo osservare il giudizio " il presidente della repubblica è
Segni ": in esso non si ha, come a prima vista sembra, uno scambio
nell'ordine tradizionale dovuto alle parole dalla loro funzione, ma il concetto
generico è assunto a soggetto e la specie infima vi è affermata immanente nella
connotazione del suo genere; i due giudizi " Segni è il presidente della
Repubblica" e " il presidente della Repubblica è Segni " non
sono equivalenti, come dimostra la differente carica attitudinale che li
riempie e che fa del primo un movimento di pensiero che dalla concentrazione
dell'energia attentiva sulla specie infima come su rappresentazione ignorata in
alcune sue denotanti e immersa nel desiderio di liberarla da tale carica di
indeterminatezza si sposta alla presa di coscienza dell'immanenza del genere
nella sua connotazione come di via sufficiente ad annullare almeno in parte
l'area di ignoranza, mentre del secondo fa una dialettica opposta che
dall'ignoranza di alcune determinazioni del genere giunge al superamento almeno
parziale dell'indeterminazione in forza dell'immanenza della specie infima
nella sua connotazione; è vero che qui conviene non lasciarsi trarre in inganno
da uno dei tanti tranelli del linguaggio, perché il segno verbale di
"presidente della Repubblica" è ambiguo come quello che indica un
genere e insieme una delle specie infime a questo sottordinate e indicate non
nella loro totale connotazione ma in quella loro denotante che qui è assunta
come privilegiata; ma è altrettanto vero che, anche riconosciuta la validità
della precisazione, qualcosa di inadeguato dalla definizione aristotelica
resta: in questo caso, infatti, non è più lecito parlare di genere e di specie,
perché il pensiero corre solo attraverso le specie infime, ma il modo con cui
le specie infime son riguardate non è lo stesso, perché nel primo giudizio la
totalità della specie infima è rappresentata in un modo, nel secondo in un
altro; il che comporta che il pensiero non sia condizionato dalla struttura
della rappresentazione della specie infima in quanto riproduttiva del reale, ma
dalla struttura della stessa rappresentazione in quanto immersa in una
condizione umana; è vero che la mia distinzione può essere ridotta alla varietà
che separa una conoscenza in genere da una conoscenza scientifica, ma è
altrettanto vero che l'ascesa dalla prima alla seconda non è tanto automatica e
univocamente determinata come la definizione aristotelica vorrebbe far credere,
e che nel passaggio dall'una all'altra si inserisce una certa descrizione dei
modi dell'ontico in sé la cui inferenza dallo stesso giudizio categorico è da
dimostrarsi; comunque, quel che a proposito dei due giudizi si vuol rilevare è
che,
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sia pure
subordinatamente a un certo modo della sua condizione umana, il pensiero è
capace di spostare indifferentemente il senso e la valutazione della totalità
dalla connotazione di una rappresentazione a quella di un altra: infatti, se
alla locuzione di "presidente della repubblica" è lasciata la sua
carica generica, il pensiero che la fa soggetto ne pensa il concetto come
un'area ben più estesa di quella del concetto di Segni, mentre se alla stessa
locuzione è attribuita una carica specifica, il farla soggetto significa porre
la connotazione del suo concetto coestensiva con quella del concetto di Segni
affidando alle denotanti determinate di questa il compito di andare a riempire
l'indeterminatezza delle sue denotanti ignorate. E ancora: se si parte dalla
definizione aristotelica, la considerazione che la liceità di predicare un
intelligibile a un altro sta tutta nell'immanenza che l'analisi scopre del
primo nel secondo impone l'impossibilità di predicare una specie a un genere,
perché questo dovrebbe dare l'esistenza all'altro mediante fattori che esso è
capace di assumere ma di fatto non possiede, sicché si avrebbe l'assurdo che un
ontico che dovrebbe essere ragion sufficiente di un altro non verifica i modi
generici della ragion sufficiente in generale; di qui la necessità di costruire
nella forma negativa ogni giudizio categorico il cui soggetto sia un genere e il
cui predicato una specie del soggetto; ma per la stessa logica aristotelica
tutti i giudizi negativi sono convertibili sempliciter, sicché il nostro
giudizio negativo dovrebbe convertirsi apoditticamente in un giudizio in cui il
genere è negato alla sua specie e con ciò dichiarato non immanente nella
connotazione della sua specie; è lecito obiettare che il giudizio negativo di
partenza non è legittimo in quanto la sua vera natura è quella di un categorico
affermativo particolare convertibile di diritto in un universale affermativo;
ma, a parte il fatto che sotto tale forma il soggetto del giudizio categorico
ha in fondo cambiato di funzione perché da segno di un genere è passato a segno
delle specie di questo genere indicate con un rilievo autonomastico del loro
denotante generico, io non riesco a trovare per l'anteposizione della
legittimità del particolare affermativo altra ragione che non sia quella di
elidere l'assurdo dell'impossibilità di inferire dal negativo un negativo
impossibile; è certo, dunque, che accettati tutti i presupposti aristotelici,
il giudizio A non è B in cui B è specie di A è valido a tutti gli effetti
tranne quello dell'impossibilità materiale e della necessità formale del suo
reciproco semplice; dal che non intendiamo trarre altra conseguenza se non che
la definizione del giudizio categorico che attribuisce al soggetto la funzione
di dare esistenza al predicato comporta la genesi di giudizi del tipo A non è B
con B specie di A che offendono a un certo numero di altre leggi del pensiero;
non essendo nostra intenzione qui affrontare la soluzione del problema del
giudizio con predicato specie del soggetto, ci limitiamo ad affermare che
l'intera questione deve essere presa in esame partendo non dai presupposti
aristotelici che non ne darebbero soluzione, ma da una visione più ampia del
giudizio categorico.Ritorniamo ai due risultati che abbiam trovato col discorso
sul polisillogismo, che cioè la razionalità del pensiero di condizione umana è
più ampia
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