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è il principio
della genesi degli intelligibili per il pensiero, mentre a una negazione della
stessa coincidenza corrispondono la netta discrezione tra esistere in sé e
liceità di pensare e tra il razionale in sé e la sua intellezione
interpretativa. Ora, il pensiero di
condizione umana perché abbia il diritto di ritrovare in se stesso la perfetta
coincidenza tra i suoi moti liberi e i moti determinati dalla natura delle
rappresentazioni attraverso le quali si sposta, è tenuto anzitutto a dimostrare
che nessuna interpretazione è da preordinarsi e presupporsi alle sue
dialettiche, che cioè i suoi discorsi che pretendono dialettizzare concetti e
giudizi con perfetta equivalenza tra rappresentazioni in sé e rappresentazioni
valutate e giudicate dallo stesso pensiero non sono mai preceduti da nessun
criterio intorno al reale, la qual dimostrazione non mi pare che nessuna teoria
del pensiero e dell'ontico in sé sia capace di dare.
Appunto per questa incapacità riteniamo di
avere il diritto di distinguere tra operazioni dialettiche il cui principio e
fondamento si ritrovano tutti nel pensiero e nel suo arbitrio ed operazioni
dialettiche il cui principio e fondamento stanno anche al di fuori e
indipendentemente dal pensiero; e su questa distinzione fondiamo le altre, sia
quella che disgiunge la razionalità dell'ontico in sé dalla razionalità del
pensiero di condizione umana;
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condizione
umana sia quella che separa la conoscenza dalla scienza sia quella che
differenzia il soggettivo dall'oggettivo: la razionalità del pensiero è uno
schematismo di spostamenti d'attenzione unicamente condizionato dai modi
attribuiti alle rappresentazioni dall'una all'altra delle quali l'attenzione si
sposta secondo lo schema, la razionalità dell'ontico in sé è uno schematismo
relazionale immerso in ontici in sé i quali quando sian dati come
rappresentazioni al pensiero di condizione umana lo costringono a spostamenti
d'attenzione dall'una all'altra rappresentazione vincolati a uno schema
prefissato dai modi che ogni rappresentazione possiede di per sé, cosicché né
l'una razionalità può dedursi dall'altra, essendo comune ad entrambe la necessità
di un univoco schema ed essendo l'una, quella dell'ontico in sé, una
razionalità la cui ragion sufficiente il pensiero ritrova in sè per ciò che
riguarda lo schema formale in generale e nelle rappresentazioni per ciò che
riguarda la loro struttura reciproca in quanto determinata univocamente da tale
schema e non da un altro; la conoscenza è un modo dialettico, scelto fra i
tanti concessi dallo schematismo formale in dotazione al pensiero, che il
pensiero di conoscenza umana adotta previa un'interpretazione delle
rappresentazioni che è unidirezionale come quella che muove dalle condizioni in
cui lo schema formale pretende di ritrovare le rappresentazioni e si porta alle
rappresentazioni per ritrovarvi siffatte condizioni, mentre la scienza è ancora
uno scegliere un modo dialettico da applicare alle rappresentazioni previo però
un moto che è bidirezionale, in quanto parte dai modi richiesti dallo schema e
va a cercarli nelle rappresentazioni e insieme parte dai modi delle
rappresentazioni e sale verso gli schemi per stabilire la congruenza dei primi
coi modi dei secondi e la reale ed effettiva esistenza di questi, con tutto
l'implicito che li accompagna, negli altri, sicché il conoscere è una ratio
quaerens ens, e la scienza è un ens quaerens rationem per rationem quaerentem
ens: la condizione del conoscere è l'effettiva ontità di uno schematismo
relazionale nel pensiero e la sua asserita ((??assente??)) congruenza con lo
schematismo che si pretende ritrovare nella rappresentazione, la condizione
della scienza è la coincidenza di uno schematismo immanente nella
rappresentazione con uno schematismo immanente nel pensiero; e da tutto ciò
deriva che abbiam diritto di prendere per soggettivo ogni moto dialettico del
pensiero che sia incondizionato da parte della rappresentazione, la quale non
necessariamente impone al pensiero la valutazione che questo ne fa all'atto di
inserirla in un dialettica strutturata da questo o quello schema, mentre
dobbiamo prendere per oggettivo quel moto dialettico che almeno in parte è
condizionato dalla rappresentazione, nel senso che questa, sia pur interpretata
e valutata dal pensiero, manifesta
queste componenti che le assegnano un posto nella dialettica strutturata
da questo e non da quello schema.
Il pensiero di condizione umana
si stanzia, quindi, tra lo schema del giudizio categorico e la serie delle
rappresentazioni e si dà il compito di distinguervi le rappresentazioni che
nello schema assumono di diritto funzione di soggetto da quelle che vi assumono
funzione di predicato: tra le prime situa quelle che hanno l'attributo della
totalità unitaria; si tratterà poi di trovare
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il criterio per separare entro il gruppo delle
rappresentazioni-soggetto le rappresentazioni cui l'attribuzione di totalità
unitaria è affatto soggettiva e deriva loro dall'arbitraria concessione di
siffatto attributo da parte del pensiero sulla base di un 'immotivata
assegnazione a un certo loro modo del valore di segno dell'attributo, da quelle
cui la concessione fa tutt'uno con l'effettiva scoperta entro la loro
connotazione della nota di totalità unitaria.
Poiché non ci siamo dati il
compito di definire l'ontico in sé, o lo abbiamo assunto solo indirettamente
attraverso i risultati dell'esame dell'uso delle forme di ragione, qui ci basta
riconoscere che al pensiero è sufficiente denotare una rappresentazione come
totale e unitaria per riempirla delle funzioni di soggetto del giudizio
categorico, indipendentemente dalla funzione che la caratterizza nella sua
appartenenza ad altri rapporti.
Risulta, infatti, che la dialettica del giudizio categorico, una volta
definita nella sua forma pura e una volta condizionata nelle sue applicazioni
alla semplice attribuzione di totalità a una rappresentazione che vi deve
essere assunta a soggetto, assume un'indipendenza da altre strutture
dialettiche molto maggiore di quella che le lasciano altre definizioni. E'
evidente, ad esempio, che la logica aristotelica finisce per fare della
legittimità del giudizio categorico un effetto e non già un principio del
rapporto di genere a specie che viene a instaurarsi tra più intelligibili:
muovendo dal presupposto che pensabilità ed esistenza dell'ontico in sé faccian
tutt'uno e che la comprensione di una rappresentazione non debba sottrarsi ai
principi di identità e di non contraddizione, con l'unica eccezione che
l'esenzione da tali leggi riguarda solo il potenziale il quale tuttavia in
nessun modo ha i requisiti sufficienti a farsi oggetto di conoscenza, la logica
aristotelica installa in tutta la sfera degli intelligibili dei rapporti di
genere a specie che data la loro natura di ontico in sé precedono per valore la
rappresentazione che al pensiero è lecito avere e con ciò subordina i rapporti da soggetto a predicato ai
rapporti da specie a genere, attribuendo sì al giudizio categorico la capacità
di scoprirli ma non di porli, con la conseguenza che il rapporto di una
predicazione categorica non è che un aspetto secondario del rapporto da specie
a genere: in siffatto stato il pensiero godrebbe di una latitudine di giudizi
categorici coestensiva di tutti i rapporti da tutto a parte che esso
instaurerebbe fra due rappresentazioni, ma vedrebbe di fatto ristretta siffatta
latitudine ai due limiti entro cui stanno i giudizi il cui soggetto è una specie
e((o??)) il cui predicato un genere del soggetto e fuori dai quali vanno a
porsi come illegittimi o falsi o erronei tutti gli altri giudizi il cui
predicato non sia un genere del soggetto. Se si guarda a fondo, anche la logica
platonica non differisce di gran che da quella aristotelica: da un lato essa
assume le rappresentazioni in quanto ordinate
in rapporti da genere a specie, identifica questi rapporti come
l'immanenza nel genere di una serie di rappresentazioni che son ripetute
identiche nella comprensione della
specie e, in quanto deve pure riscontrare nella specie un'articolazione più
ricca di quella del genere, dall'inettitudine
di quel di più qualitativo
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