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o dal genere alla specie e insieme dalla specie al genere, la quale
dipendenza non vi sono ragioni di riserbarla a una sola delle coppie e non a
tutte simultaneamente; è vero che si deve sempre valutare il genere come un
qualitativo che non resta omogeneo e quindi indifferente alle sollecitazioni
che gli provengono dall'articolazione di una certa connotante specifica, è vero
cioè che si deve ritenere che il genere patisca una variazione di sfumatura a
seconda che si faccia perno di articolazione di questo o di quello specifico
necessario, con la conseguenza che non è lecito per il pensiero rendere
equivalenti il nesso che intercorre fra un genere e una sua specie col nesso
che intercorre fra lo stesso genere e un'altra specie non solo perché è
cambiato l'ultimo dei termini relazionati ma anche perché il termine generico
solo in apparenza è rimasto invariato passando dall'un rapporto all'altro
mentre di fatto ha modificato il modo con cui si faceva strumento e bisogno
dell'una o dell'altra differenza specifica, ma è altrettanto vero che, a parte
che alla conoscenza umana non è data la chiara distinzione delle varie
strumentalità e bisogni, lo stesso pensiero di condizione umana nell'atto in
cui assume un genere in quanto genere lo deve colmare di tante strumentalità e
bisogni quante sono quelle che occorre ritenere soddisfatte dalle varie
differenze specifiche, sicché una volta definito in tal modo il genere esso
deve entrare in rapporto necessario con l'intero complesso delle specie e non
con una sola specie a caso disgiunta e resa indipendente dalle altre: in altre
parole, è quasi obbligatorio per la logica aristotelica rappresentarsi il
genere A come carico di una certa tonalità A, che non coincide con nessuna
delle denotanti generiche o specifiche che lo costituiscono e che consiste in
un modo con cui si atteggia la sua deficitaria richiesta di completamento nei
confronti dell'intera serie delle sistemazioni potenziali che riescono a
soddisfarlo; da tal punto di vista A1 è da un lato una carica di
indigenza ontica e dall'altro uno strumento di cui l'ontico nella sua piena
determinazione attuale, ossia la specie infima, si vale per promuovere
l'attuazione degli specifici necessari che articolandosi sul genere le danno
esistenza e pensabilità; ma lo stesso pensiero nell'atto in cui dota il genere
di siffatta nuova ricchezza qualitativa non ha il diritto di rappresentarsi il
genere denotato solo dalla nota A1 che è per dir così privilegiata
nei confronti della differenza specifica B1 che articolandosi su A
pone la specie B, è tenuto invece a darsi una teoria di A per cui A risulta
denotato da note tutte formalmente cogeneri di A1, A2 A3....
An, le quali son tante quante sono le differenti differenze
specifiche che articolandosi su A pongono tutte le specie di B, sicché quando
lo stesso pensiero dovrà porre una dialettica fra il genere e le specie la
quale assuma a suo principio il genere stesso, non avrà nessun diritto di
escludere, a vantaggio di una certa connessione fra il genere e una
qualsivoglia delle specie, tutte le restanti connessioni dello stesso tipo; mi
pare dunque che sia impossibile per il pensiero di condizione umana erigere
((??esigere??)) un nesso disgiuntivo fra la serie intera di intelligibili che
son specie e un altro intelligibile che dovrebbe essere loro genere; l'ipotesi
quindi da cui siam partiti non consente di rendere conto del giudizio
disgiuntivo,
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il che comporta che dato il giudizio del tipo A è o B o C, non sia
lecito far corrispondere ad A la rappresentazione di un genere; allora, poiché
in forza del principio di determinazione parziale che consente al pensiero di
rappresentarsi una totalità intelligibile non completamente articolata sulle
note della sua connotazione alla condizione che vi siano ragioni sufficienti
per rappresentarsi l'unità della totalità e l'immanenza in essa di alcune note
denotanti, il pensiero in grado di rappresentarsi una parte di una connotazione
o in sé come ontico intelligibile con funzioni di soggetto o in altro come
ontico intelligibile con funzioni di predicato, ogni qualvolta è presente la
rappresentazione di un generico si ha il diritto di porre la questione se
questo generico sia in sé, un genere cioè che è trattato di fatto o ha la
liceità di essere trattato di diritto come soggetto, oppure se sia in altro, un
generico cioè che è rappresentato nella sua immanenza di diritto e di fatto in
una connotazione e che perciò non è trattabile se non come predicato; se in
questo secondo caso il generico è di fatto la rappresentazione del tutto cui
esso appartiene come denotante immanente, esso coincide con la rappresentazione
di una sua specie; del che ci si deve valere per accogliere il generico che è
soggetto del giudizio disgiuntivo come coincidente con la rappresentazione di
una sua specie, dal momento che non può essere rappresentazione di un genere;
ma la specie, che allora nel giudizio disgiuntivo sarà rappresentata in sé come
totalità e insieme attraverso la sua denotante generica in quanto totalità
indeterminata nella sua completa qualificazione connotativa, non coincide con
nessuna delle specie indicate dal predicato, infatti se A indicasse la rappresentazione
di una delle sue specie B o C, il giudizio A è B o C sarebbe un assurdo e un
impensabile -; deve quindi coincidere
con una delle specie sottordinate a una delle specie disgiunte dal
predicato; l'indeterminazione da cui la specie soggetto è affetta sta tutta
nell'ignoranza delle differenze specifiche che di fatto s'articolano sulla
denotante generica a costituire la specie stessa; in questo caso, allora, il
giudizio nella logica aristotelica acquista legittimità come quello che è
rappresentazione della dialettica di un giudizio categorico il cui soggetto è
da un lato sufficientemente noto nelle sue connotanti perché una almeno di
queste, di natura generica, abbia il diritto essergli predicata, mentre
dall'altro è tanto indeterminato e ignoto da non esservi la liceità di
predicargli quegli altri generi che sussunti sotto il genere noto mediano tra
questi e il soggetto: il principio di identità costringe allora il pensiero a
porre la necessità della predicazione
di uno solo dei generi medi, mentre il principio di determinazione
totale gli impone di lasciare indeterminato il predicato, ponendolo tuttavia
entro la sfera degli intelligibili che necessariamente gli spettano in quanto
sussunti sotto il generico noto; a quale tipo di discorso siffatto giudizio
disgiuntivo debba riportarsi fra quelli accettati dalla logica aristotelica,
non è qui nostro compito stabilire: è certo tuttavia che esso non racchiude la
dialettica semplice del giudizio categorico, anche se l'essenza del rapporto
che esso instaura ripete puntualmente la struttura del rapporto di immanenza, e
che inoltre esso non instaura
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affatto il rapporto fra un genere e le sue specie, bensì attua il
rapporto, tipico del giudizio categorico, fra una specie e i suoi generi, e
insieme molto lascia dubitare che lo schema del giudizio disgiuntivo, in una
descrizione aristotelica dei moti entro la sfera degli intelligibili, sia il
prodotto di una situazione contingente del pensiero di condizione umana e nulla
abbia che fare con le dialettiche universali e necessarie di una razionalità
pura e perfetta.
Ma la logica platonica e
quella aristotelica sono meno fedelmente riproduttive delle forme dei fenomeni
dialettici di quanto di solito si crede e aggiungono teorie in numero maggiore
di quanto è strettamente necessario: così la prima vede l'intelligibile
generico conservare intatta la propria unità sintetica e simultaneamente
dirompere in due frammenti ciascuno dei quali deve la propria natura e
struttura alla perdita di ciò che del generico è stato conservato nell’opposto
troncone e alla conservazione di ciò che del generico l'opposto troncone ha
perduto, e su questa visione che l'occhio della riflessione non ha mai colto
nella sfera delle ontiche dialettiche interiori e che è inferita da postulate
valutazioni del razionale fonda la ragion sufficiente delle operazioni che il
pensiero compie sugli intelligibili e il criterio di validità della loro forma;
l'altra logica invece vede, con una complicazione ancor più grande, ciascun
intelligibile affiorare in seno a un plasma rappresentativo indeterminato e
costruirsi con una serie progressiva di rappresentazioni determinate ciascuna
delle quali, essendo un definito preda di un margine di indefinitezza, riesce
ad annullare in parte almeno quanto di indefinito si dà nella precedente e
attende dalla successiva il superamento almeno parziale della propria
indefinitezza; la sua visione è portata allora ad interpretare il passaggio da
un intelligibile a numero x di rappresentazioni connotanti all'intelligibile a
numero x + n di rappresentazioni connotanti come un arricchimento di
connotanti, sulla base del rapporto atto-potenza che, fatto principio di tutto
il divenire e quindi anche del mutarsi di una specie in un genere, complica ancor
più l'interpretazione del nesso tra intelligibili e subordina la validità dei
discorsi a forme che non son le sole di cui il pensiero è capace e alle quali
il pensiero è addirittura inadeguato. Ora, non pare né necessario né
giustificato preporre alla logica teorie il cui fondamento sta
nell'universalità della metafisica adottato più che in costruzioni
problematiche cui il pensiero sia tenuto a procedere se intende rendersi conto
di ciò che esso opera.
La riflessione coglie nei
fenomeni dati entro la sfera dell'intelligibile in primo luogo una certa
struttura dell'intelligibile in generale, il quale si pone come unitario e
insieme come disarticolabile in una molteplicità di rappresentazioni ciascuna
eterogenea dalle altre, in secondo luogo un certo rapporto fra le rappresentazioni eterogenee
disarticolate ciascuna delle quali, influendo sulle precedenti col fissare uno
fra i molti modi secondo cui queste sono capaci di esistere e lasciandosi
influenzare dalle seguenti accettando da queste che fra i molti modi secondo
cui ad essa è lecito esistere uno solo debba essere rappresentato dal pensiero,
entra in una connessione tale con le altre che appare apodittica e ineluttabile
solo se l'attenzione si sposta sui modi che la qualità propria della
rappresentazione assume nell'ontico,
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