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Giordano Bruno Cavagna
(n. 1921 - m.1966)
Metaf. class. e metaf. cristiana

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  • Prot. 252 - 301 F2
    • 274
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- 404 -


[pag 404 (274 F1 /2)]

e di coesistenza simultanea e unificata in un tutto di due biffe che solo in un caso sono identiche l'una all'altra, nel caso che si sintetizzino in quell'ontico che è qualità del quantificato e che chiamiamo due, mentre negli altri casi sono l'una l'unità che è già stata biffa della dialettica del due e l'altra una sintesi solo mediatamente identificabile con l'unità; dal che segue che ogni ripetizione del rapporto in parole sussiste alle condizioni che una delle sue biffe sia posta in equivalenza con l'unità sintetica dei molti trattati come unità identiche l'una all'altra, e inoltre che esso stesso si faccia biffa di un'unità che è sintesi delle sue due biffe, l'unità sintetica delle molte unità identiche e una delle unità identiche; che se si obietta che ciò è falso perché nessuna illiceità esclude la legittimità dell'enumerazione 1+ 1 + 1+ 1......, o che ciò non è vero perché le dialettiche hanno la liceità di enumerare 1, 2, 3, 4....senza mai arrestarsi, ad ogni ripetizione del rapporto di giustapposizione, all'equivalenza 1 + 1 = 2, 2 +1 = 3, ecc. si risponde da un lato che la enumerazione 1 + 1 + 1 + 1... è un segno che ha a sua supposizione degli ontici autocoscienti che non sono affatto identici agli ontici autocoscienti che il segno suscita, perché nessuna dialettica fra ontici autocoscienti è in grado di conservare all'autocoscienza, secondo la simultaneità che è delle dialettiche di condizione umana, più di due ontici se non alla condizione che nell'atto di utilizzare a biffa due di essi in rapporto con un terzo, o più di due di essi in rapporto con uno sovraggiunto, è necessario che i due o i più di due siano stati unificati in una sintesi tale che sia lecito trattarla come un'unità, e sillogismo e polisillogismo lo inseguino ((insegnino??)), essendo allora quel segno una traduzione in quel mezzo spaziale in cui distinti che sian più di due " sembrano" correlarsi reciprocamente senza perdere nessuno la propria discrezione dagli altri, di quello stato degli ontici autocoscienti che è di una dialettica che ignora lo spazio, stato in cui mai una pluralità di più di due è dialettizzabile con la loro permanenza in discrezione, d'altra parte che l'enumerazione 1, 2, 3, 4....è anch'essa un segno linguistico sotto cui si suppone la dialettica di giustapposizione come qui sopra abbiam descritto, essendo piuttosto il segno linguistico un supposto da qualcosa che ha una certa corrispondenza col segno, questo: 1 + 1 = 2, 2 + 1 = 3, ecc.; che è ciò che i bimbi che enumerano veramente dicono; dal che risulta che la forma di giustapposizione non è mai un assoluto, ma un momento o biffa di una dialettica di equivalenza e che, in quanto dialettica di equivalenza rimanda per la sua analisi alla classe di queste; d'altra parte anche i rapporti matematici raccolti nella terza classe in quanto nessi di unificazione di quantitativi discreti da equazionarsi a un quantitativo unico sono in funzione del modo qualitativo di questo e quindi del rapporto di equivalenza con questo; ora, nel rapporto di equivalenza, affinché l'equazione abbia un significato è necessario che uno dei rapportati sia o sia trattato come un tutto uno, dalle cui variazioni dipendono, in una immutabilità della forma di giustapposizione o delle forme di unificazione, le variazioni dei quantitativi giustapposti o unificati, e, se è vero che la variabilità è lecito che giochi liberamente all'infinito e che una quantità infinita


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[pag 405 (274 F 2 / 3)]

di quantificati variabili entri nei rapporti che son biffe della forma di equazione, è altrettanto vero che l'infinito è quantitativo e non qualitativo come quello che riguarda una liceità di aumento o di diminuzione all'infinito delle quantità dei quantificati, ma non la liceità di un mutamento all'infinito dei modi qualitativi delle variabili i quali anzi non solo giacciono entro un numero di variazioni lecite che non equipara l'infinita successione dei quantificati irrelati, ma ritrovano la ragione di questa liceità definita in un'essenza generica una ed unica che è il qualitativo immutabile e generale che i quantificati debbono assumere poste siffatte forme; queste, allora, non calano sui quantificati con assoluta indipendenza dalle loro modalità qualitative, ma una volta posta l'unità sintetica del quantitativo con cui il resto dell'equazione dev'essere equazionato o vedono entrare nei vacuoli delle loro branche quei quantitativi che hanno almeno un certo modo qualitativo generale, in assenza dei quali né le forme equazionate né la forma di equazione ha ontità, o debbono lasciarsi sostituire da altre forme nel caso che i quantificati da equazionarsi siano già definiti e sia richiesta la permanenza dell'ontico della forma di equazione; che se poi si pretende che ogni quantificato in generale sia del tutto riducibile alla forma o alle forme che, unificandone le parti unitarie, ne consentono la sintesi, la pretesa reggerebbe se si dimostrasse che queste parti unitarie disarticolate o consentono un processo di analisi all'infinito che non s'arresta mai a porzioni quantitative elementari e che, con ciò, vede le porzioni sciogliersi sempre in rapporti formali, il che non è, perché, anche ammessa la liceità di tale processo, la forma cui la riduzione mena non solo è quella che è in funzione del modo qualitativo del tutto uno da cui si parte, e in funzione dei modi qualitativi dei quantitativi raggiunti dalla riduzione, ma sussiste alla condizione che dei quantitativi che non sono qualsivogliano ma sono sempre in funzione del tutto da cui son ridotti, sian sempre nell'autocoscienza con i loro modi quantitativi a consentire l'ontità autocosciente dei successivi rapporti; anche la matematica quindi con le sue forme solo in apparenza prescinde dalla materia delle biffe e dalla qualità di essa-; c) che, se il rapporto formale connettente intelligibilmente due intelligibili ha esso stesso una comprensione, la quale, disarticolata in connotanti generiche e specifiche, si fa oggetto e materia di una dialettica, deve essere esso stesso un'unità e un intelligibile, nel senso che da un lato deve esser denotato dalla connotante generica che ne fa una morsa indissolubile a due estremi che sono a loro volta morse pronte ad afferrare e quindi a far un uno quanto vi entra, dall'altro deve trovare tutte le sue note denotate dall'intelligibilità, con la conseguenza che delle tre l'una o quanto entra in ciascuna delle due morse estreme è un rapporto, ossia un intelligibile che a sua volta è morsa nei cui estremi entrano rapporti che relazionano rapporti e così, e la materia è in sé un intelligibile che è principio di intelligibilità per sé e per il rapporto di cui è biffa, e in questo caso si la forma delle dialettiche dialettizzanti forme, le quali però non sono neppure una porzione della sfera delle dialettiche, perché non esiste nessuna dialettica di dialettiche la quale non veda le sue biffe indirette coincidere con una materia che non è forma




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